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LISANDER

 

 

monologo

 

 

la voce

 

Lisander

(Alessandro Manzoni)

 

 

 

nota

 

Lisander o

 “La mirabile storia di Saverio Fanàl” di Marzio Siracusa

di cui dissi nel 2007,  omaggiando con cinque lettere

 desunte e motivate dalla trama e dalle cadenze morali della storia.

Tra esse insinuandomi.

 Nella sfida. in contrappunti esistenziali,

 tra Saverio Fanal e Lisander,  ovvero Alessandro Manzoni.

Dove il primo ingravida il principio del narrare

 delle pulsioni irrisolte, senza destino,  del grido natale.

 In un conflitto allegorico tra destinazione e destinato.

 

 Marzio Siracusa, “La mirabile storia di Saverio Fanàl”

 2007, Edizioni Polistampa, Firenze

.

 

 

 

MONOLOGO

 

 

 

la prima lettera

 

 

All’Ecc.mo Signore Saverio Fanàl

alla locanda sopra Belgirate

 

Il giorno 13 del mese di novembre del 18...

 

Gentilissimo Signore,

 

ricevo la Sua lettera, cui do seguito, nel mentre sono intento ad ancora compiacermi dei riposi che si addicono ad un vecchio.

 

Non che la Sua cortese mi distolga dalla riflessione cui mi inducono le acque ormai silenti, come la mia mente,  anzi più verso di essa mi sollecita.

Temo e tremo che la lettura sulla sorte, cui destinai i mie promessi, abbia per Ella significato affatto diverso di cui la investii nel narrare la loro storia.

Ella preannuncia, d’altronde, un disegno impetuoso. Come la Sua età che, per esso, ho da  presumere  di giovanile stampo.

 

Vorrà astenersene. Non ho le condizioni e la istigazione, all’odierno, di pormi in confidenza ad  uno scontro che Ella preconizza. Che, invero, vorrebbe a pretesto di una illuminazione sulla possibilità del Suo intuire a contemplare storie di altro destino; in un agone di racconto che , non me ne voglia, si evidenzia  necessità di esserne protagonista e,  per ciò stesso, consegnarsi vincitore e celebrato oltre ogni possibile merito.

Non è questa, per l’affollamento di interrogativi che mi posi e di cui, oggi con umiltà,  ancora Le  riferisco, la traccia o il pretesto cui potrà affidarsi. E’ il dolore di quel mondo che Ella, Signore, paia voglia aggredire per suggerirgli  la Sua presenza.

 

Le preme imporre, alla mia attenzione, la ribellione all’oltraggio.

 

Io diffusi nei miei promessi l’innocenza del pudore. Vorrà generosamente comprendere: era nel mio pensiero l’ossessione che anche la colpa, nella sua confessione, confidasse nell’innocenza. Come lo sbalordimento o la rassegnazione o l’incredulità o l’impudicizia. Che l’innocenza permanesse dal primordio. Mai contaminata, mai corrotta. Che in qualche modo, in qualche tempo, per qualche gesto o per qualche parola, risorgesse. Per un segnale misericordioso e concludente della nostra erroneità.  A tanto pensare affidai la composizione dei gesti e delle parole che ha rinvenuto nei promessi.

Così, se vorrà intendere, è qui la mia risposta alla domanda che Ella, incalzante, mi pone: “A qual prezzo deve inchinarsi la provvidenza per essere trama da raccontarsi?”.

A niuno; giacché il prezzo è presunto ed è nella balorda inutilità delle imprese. Perché tutto ciò che è degno ai nostri occhi lo è solo per il tempo del nostro vedere e non oltre.

 

Per questo, alla fine dei promessi, ho taciuto sulla loro morte e dei loro figli. Avrei raccontato senza il racconto degli occhi e del loro tempo.

 

Mi abbia, Gentilissimo Signore,

Suo, Lisander

 

 

la seconda lettera

 

 

All’Ecc.mo Signore Saverio Fanàl

alla locanda sopra Belgirate

 

Il giorno 21 del mese di giugno  del 18...

 

Gentilissimo Signore,

 

lessi e stupii della Sua altra corrispondenza che,  a mia ragione, nulla attiene alle risposte, per interrogativi che Ella si premura, incessantemente, di porre alla mia riflessione ed ai quali mi appare, in tutta evidenza, io dia conto di ascolto.

Riflessione che, Le già scrissi, viene ad  essere distolta, sottratta, come Ella si applica, agli altri quesiti e fraseggi, che pone.

 

Non mi  risparmio all’ulteriore risposta. Ove non mi taccia nuovamente di non essere adeguato alle Sue sotterranee esigenze.

 

Annoto, nel capo, che Ella si è prefisso il fine della denigrazione del mio scrivere, riportandolo con un pregiudizio assoluto allo “accecamento del raccontare”.

 

Ma io mai mi apprestai al racconto senza in me sorgiva la  necessità del raccontare. Che è più autentica e intensa  e riflettuta emozione delle Sue interrogazioni. Tali, non potendo altrimenti intenderle, se non come puntelli di una Sua delirante sconfessione dell’eroismo e del male, di cui pure, accenna.

È in me, lo è stato, integro quell’alternarsi dubbioso della salvezza non creduta e della salvezza che lievita come esigenza del riparo.

 

Ella sostiene, scrivendo: “Chi nella salvezza non crede avrà avuto in regalo le scorciatoie della verità e dell’interiorità per piantare nel fondo dell’uomo una nequizia o un sogno , quand’anche un veleno.”

 

Orbene, Gentilissimo, non viene a paventarsi  una alternante conclusione dell’attesa; un qualche istante di cedevolezza della sicurezza che ostenta; un richiamo all’abbandono verso una misericordia che La respinge perché rigettata nella forzata inutilità della preminente condizione dell’intendere?

Ella ambisce comportarsi in una ostentazione del predominio furioso della Sua colpa;  godendo l’assillo per una penitenza infinita.

Ella compiace l’eroismo e il male compiuto che  Ella da se stesso promuove e riceve da se. L’un l’altro usuali e compiacenti abiti di vestizione per la stesura della Sua medesima e prossima  narrazione, di cui dice. Non altrimenti, La avverto, il Suo narrare si isolerà compiaciuto del suo essere il solo racconto, in una aberrante unicità dei racconti possibili, annullando,  finanche,  il percorso delle scorciatoie cui si affida .

 

Non posso seguirla oltre il confine di una tale assoluta certezza.

Il Suo dubbio è un  irrisolto pensiero di impotenza che vuole risolversi nell’adempiere alla fine del racconto e, come Ella sostiene, della nostra vita.

 

Mi abbia, Gentilissimo Signore,

Suo, Lisander

 

 

la terza lettera

 

 

All’Ecc.mo Signore Saverio Fanàl

alla locanda sopra Belgirate

 

Il giorno 18 del mese di dicembre del 18...

 

Gentilissimo Signore,

 

la assoluta disattenzione che Ella pose alla mia sosta di quiete, andando verso  Belgirate, agitò in me   altra disattenzione al  plico che mi impose.

 

La sua insistenza si mostra pari, se non maggiore, alla rassegnazione in cui vado adeguandomi agli inseguimenti che mette in atto. E, invero, le sue divagazioni mi appaiano come frutti turbati di sonno,  ingannevole e inquieto, che La avvolge.

 

Ella si acconcia, in abito e in modi,  ai bellimbusti di strada o agli avventurieri di ogni stranezza.

Non dirò, né potrò sortire eguaglianza con i bravi che descrissi. I quali languivano nella loro sorte abbrutita dall’esigenza di una verità; qualunque ne fosse la misura, e, in virtù di siffatta verità -o servi di essa-,  animarsi;  vili medesimi della stessa viltà che costì  li aveva costretti.

Ella, d’inverso, esibisce motivi di apparente nobiltà. Argomentando nel pretesto di una provvidenza che parrebbe renderla di umana considerazione nella pietà e che, piuttosto, Ella agita e sospinge come clava verso chi ne fa uso in misericordia.

 

Così che a uomo che mai vide armi, ma che della scrittura conosce gli agguati e le omicide certezze, si appresta, vorace di scempi, il suo vaneggiamento: ”Lei è il peggior nemico delle sue creature e la incolpo di averne filato la storia secondo la scaltrezza della musica. Lei non sa cosa significa andare lontano dai sentieri, lei non ha mai raccontato niente. Già glielo dissi, altro compito attende il raccontare.”.

Ella osa  mostrare disprezzo all’armonia e, con essa, al Dio Creatore  che fu artefice dei suoni perché noi li raccogliessimo come gentilezza e fusione il Lui dell’animo nostro; per dono che ci fà virtù della Sua benevolenza  e per la grazia che  intende l’amore riconosciuto, anche nella abiezione.

Orbene, il mio racconto fu sì il raccontare della provvidenza che in essa medesima si racchiudeva e schiudeva. Non altrimenti avrei reso esplicito il cadenzare della natura e delle spettanze degli uomini al Bene,  ossequioso al  desiderio  del Padre.

 

Gentilissimo Signore,

 

La ammonisco: il prosieguo nella  sua nefanda solitudine, cui intenderebbe costringermi, purchè non macchiata e finanche di ignominia, la porterà ad una  morte abbandonata da cui, voglia la Provvidenza misericordievole che Ella scansa,  potrà  edimersi nel confessionato, estremo, grido di una musica ricomposta: “non volevo, non potevo, non dovevo”.

 

Per oggi, null’altro Le devo  e Le scrivo.

 

Mi abbia, Gentilissimo Signore,

Suo, Lisander

 

 

la quarta lettera di Lisander

 

 

All’Ecc.mo Signore Saverio Fanàl

alla locanda sopra Belgirate

 

Il giorno 11 del mese di settembre del 18...

 

Gentilissimo Signore,

 

Le manifesto l’accoglimento benevolo del perdono che mi implora per le abusate provocazioni con le quali si è, ad oggi, riferito alla mia persona.

 

Tornado di Toscana la servante mi illuminò sui tratti propri della angoscia che La tormenta; con l’avvisarmi  della Sua venuta e del Suo sostare  al cancello della villa;  nell’immoto osservare i panni della provvista domestica, messi all’asciugo.

Ebbi allora a pensarLa in quell’inviluppato certame di invidie che hanno originato la sua odierna perorazione.

 

Nel mentre Ella  principia la comprensione, che abbia continuazione!, della mia diversa costumanza, conforme all’animo mio e al mio narrare, che mi conduce alla scambievole devozione  con uomini di eccelsi meriti. pure, Ella  ambirebbe gli stessi da me sollecitati e coinvolti in una riprorevole tenzone in cui    dovrebbero umiliare la loro virtù,  per essere scempio del Suo vaneggiare.

Abbia ad astenersi, Signor mio, dal proseguire nel prevedibile sotterfugio che sollecita nell’esortare a “un racconto nuovo e comune” finanche “progetto del vivente” che nella Sua insana  fantasia finanche coinvolge in esso il destino dei regni, così come mi confessa: “i popoli della terra hanno diritto ad un racconto nuovo”.

 

Per quale  meraviglia o strabiliante destinazione ordire un’avventura delle vicende degna di una scrittura tale da dovere essere novità delle genti?

Pure se questa scrittura possibile,  per  quale provenienza essa risulterebbe portatrice di ragionamenti e amorevolezze  se non da quella provvidenza di benefici di cui è pervasa la condizione della vita stessa? Come potrebbe discostarsi o esprimersi  quel progetto del vivente, di cui dice, se non nel vivente medesimo?

 

Io scrissi nella continuità delle Scritture e dei Salmi dei Padri nostri; volgendo alla comprensione delle genti le urgenze della natura e l’animo degli uomini;  cui essa, da sola, provvede nella contemplata destinazione  alla quieta  purezza con cui si offre alle decisione dei reggitori, degli eroi, degli umili.

Io, Signor mio, scrissi una storia di purezza e alcun racconto potrà essere un “progetto del vivente” se non un demoniaco guasto all’assoluto riposo nella misericordia.

 

No! Sacrilego è il Suo pensare e me ne discosto con sdegnevole riprovazione.

 

Mi abbia, Gentilissimo Signore,

Suo, Lisander

 

 

Alessandro Manzoni a Emilia Fanàl 

 

 

A lettura della Riv.a  Dom.a

Emilia Fanàl

presso la Sua dimora

in quel di Belgirate

 

Donna Emilia,

 

pure sopraffatto dalle lusinghe  e dalla riconoscenza degli uomini, appanno i  miei meriti, per condurmi a Lei ed al Suo dolore, con la costernazione che subì l’animo per l’inaspettata vicenda che operò  la cecità verso la luce  terrena del Suo amato consorte.

Ella sa: ne fui testimone. Per una ulteriore vicenda delle umiltà quotidiane che si inflisse Nostro Signor Gesù Cristo per consentire il timore e l’implorazione alla Grazia del Padre Suo.

 

Donna Emilia,

 

si appresta l’ora delle mestizie segrete tra i tenui sortilegi delle luci e il veleggiare delle nebbie d’intorno alle scuri. La sorte della mia scienza vacilla. Non è il momento, altro, di negare  l’inquietudine.

Nel tumulto, La imploro che di questo scrivere onesto, cui  mi accingo, abbia breve cenno di memoria; quanto ne basti a consentire lo spurgo della mia infelicità dell’oggi.

 

Di volta in volta ho assaporato  il calore della brace  cui ho destinato le note delle giornate vacillanti di Saverio e le copie furtive dei manoscritti che Ella mi inviava.

 

In questo rito di ricercata espiazione alla  mia bramosia  mi andai accorgendo che, più  della lettura di esse,   il calore permeava,  per un sortilegio a me sconosciuto e spaventevole,  le viscere mie di una instabile condizione, sino a divenire  la mia corporalità ignota a me stesso. Sicchè mi appariva di essere posseduto in  un vortice di irrisolte e pure definite domande che, invero,  s’acquietavano esse stesse nella contemplazione del loro impulso sorgivo.

In me si predisponeva la narrazione di un mito in cui venivo ad essere travolto;  al tempo stesso, narratore  e compartecipe della storia; improvvido e famelico cospiratore della leggenda medesima: anima inerte, senza più coscienza.

Siffatta allucinazione consapevole e goduta, confesso, mi produsse l’esigenza dell’indagare sulla provenienza di una tale mostruosità,  in cui mi ravvolgevo disperato.

 

Vagai per tutte le indecisioni e turbolente passioni che avevo appuntato quali segnali della mia ambizione; rivoltandone la falsità e la convenienza.

Fui, così, anche, macchinatore implacabile della più perfida delle mie emozioni.

 

Indagai gli occhi della memoria negli occhi spenti di mia madre e di mia figlia.

Ogni tormento fu da me scatenato, apprestato ad essere la preghiera risolutiva della perdizione  e, per questo,  della mia salvezza. In tale sostegno, che praticavo alla mia ragione, mi avvidi che la completa fede in Nostro Signor Gesù Cristo, che ripianava i miei debiti di intolleranza e di impazienza,  non  era più efficace soccorso alla mia inquietudine.

Imparai a smascherare la utilità della verità e disvelai il nascondiglio della continenza.

 

Korupira, ah, Fanàl!,  disperdeva il fogliame, scuotendo eucalpiti sulle rive.

 

Non distinsi più l’aprirsi delle acque, alla battuta del remo, dal virgineo orgasmo di Lucia e scorsi il  passero precipitarsi al nido quando il mio Adelchi pigolava dolente la sua fame.

Amai, allora, l’eccesso di questa musica confusa; amando il distacco dall’amare; l’allontanamento che me ne congiungeva; l’ansia feroce per un raggiungere che discostavo; l’inseguimento senza corsa.

Fu,  così,   che sopravveniva  una quiete inaspettata; quando  le foglie di eucalipto cullavano i semi che la terra assorbiva, flessuosa.

 

Alfine, compresi: Adelchi comprime il suo grido di riconoscenza alla oscurità della notte che lo ravvolge, rendendolo ignoto, ignorato e silenzioso; senza che predatore lo raccolga.

 

Il mio raccontare disse dell’eroismo senza sapere; dell’abbandono senza rimpianto; della coscienza senza necessità.

 

Donna Emilia,

 

Saverio volle  incenerire tra i carboni della nostra brace l’ultima verità e l’ultima menzogna.

Fu cantore delle molteplicità delle malinconie delle generazioni che verranno, essendo venute.

Mi vinse, ma fu tragedia.

La tragedia afferma la congiunzione. Il raccontare inquina la unità.

Ed io ho dovuto e debbo inquinare la unità, per consentirmi l’essere vivo.

 

la verità non ha in dote bianchi lenzuoli per coprire gli arredi in nostra assenza, invece il racconto nuovo sì perchè la casa resta nostra”,  così mi scrisse.

 

No! Non leverò i legacci alla borsa  in cui raccolse i suoi moniti; ma, questa notte, un bianco lenzuolo nasconderà  lo scrittoio e questo foglio intonso.

 

Donna Emilia,

mi abbia Suo devoto,

Alessandro Manzoni

 

Dalla casa di Lesa, una sera del 1852

  

 

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