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EDITORIALI

 

 

 

 

 

 

 

tra la morte dell’idea e l’idea della morte  del  3 aprile 2015

 

 

Corre il tempo di rese di conti sull’essersi affidati a vaghi e irrisolti, quindi indecifrabili,  teoremi  di contemporaneità;  per sanare, o tentare di sanare,  le progressive dissolvenze dell’umanità/cittadinanza.

L’idea - il concetto di idea,  sebbene esso stesso concetto - ha pervaso e percorso  mutamenti e mutazioni dei rapporti sociali. 

Pure con  presupposti contrastanti tra essi: sottintesi,  inganni, provocazioni, illusioni, giustificazioni, pentimenti. A volte assoggettandoli, a volte esaltandoli; comunque, misure  regolatrici di un adempiuto svolgimento  delle vite. Finanche, quando apportatori di tragedie o di adeguamenti supplici.

Così,  l’idea del tiranno, delle divinità e del dio; di contro,  della tolleranza, dell’uguaglianza; ancora,  della scienza,  del nulla assoluto.

Il rapporto sociale si svolgeva –si è svolto - fisso nell’idea di imperio della ragione conveniente o della ragionevolezza compiacente.

L’idea, l’idea cardine  ovvero  il principio generatore del fine.  Ora, volendosi  immutabile,  per una intrinseca prospettazione dell’idea all’adattamento;   ora,  manifestandosi provvisoria, per la flessione dell’idea verso l’utile.

Nella contemporaneità l’idea del vivere si è venuta a trasferire nell’arrendevolezza religiosa alla morte proporzionata  alla necessità dei bisogni; questi, espansi  da un rapportarsi,  della idea  del vivere, alla evoluzione della tecnologia. Ne soggiace  l’idea della scienza ovvero dell’arte e della creatività. In subordine alla costruzione economica delle voluttà.

L’idea, l’idea cardine,  ne è dispersa. Frazionata e dilaniata in rivoli inesplicabili, perché mutevolmente confliggenti nella manipolazione dei fini e delle costruzioni temporanee  delle soluzioni. Quali che siano.

L’artefizio che ne deriva è la saga dei non sensi. Il terreno di ogni presupposto di esaltazione dell’istinto; raffinato nella esternazione di sé  perché non animalesco;  e, perciò,  crudele perché inutile.

Una morte della idea da cui avanza l’idea della morte.

Una morte senza cantori e senza miti.  Esclusa da ogni possibilità di essere rigeneratrice.  Reietta finanche dagli inferi. Perché la morte della destinazione è la barbarie del nulla.  Laddove ogni scempio ha ipotesi e perdoni in  religionerie e in  moralismi, in compiacenze e in collusioni, in profezie di giustizia e in deserti di consapevolezza.

E la contemporaneità  soffoca, nella miseria e nel sangue, l’umanità/cittadinanza.

 

 

 

la violenza del “buonismo”  del 12 aprile 2015

 

 

La indulgenza produce insolvenze. La comprensione soluzioni. Poi, dalle insolvenze,  dissonanze di rancori, abbandoni, contrasti. La giustificazione portata ad evasioni  delle regole del contratto sociale (anche internazionale) esaspera conflitti  e ribellismi. Agita le piazze e atteggiamenti individuali,  non di dissenso ma di violenza. Apparentemente soddisfacendo esigenze le sacrifica ad un particolarismo oscurantista che nulla apporta alla definizione e evoluzione  dello stato sociale nell’affrancamento dai bisogni. Le religioni sul valore del tempo lineare  cadenzano  presenze di perdoni e motivazioni salvifiche. Gli stati si contrastano su temi politici di esportazione/importazione di modelli: nulla valendo le stratificazioni ambientali e culturali dei popoli.

Un delirio.

Un delirio in cui il buonismo si erge a depositario delle “buone ragioni” morali; sacrificando, ogni conseguenza  delle insolvenze,  all’apparire “unto di carità” per una etica da stupore che  concede  speranza ad uso dei più deboli; con essa irretendoli e dettagliando  minuziosamente  tematiche e metodologie per un nuovo servaggio, a volte schiavismo, ancora, saccheggio.

La contemporaneità – e non già,  ancora, quella post moderna- ha ammassi di “buonismo” su cui si fortificano i poteri. Dalla indulgenza verso il “bravo ragazzo” o la “piccola corruzione”; verso la spoliazione di territori o la immigrazione clandestina; verso la democraticizzazione obbligatoria o la deconflittualità culturale.

Il buonismo giustifica, piagnucola e piagnucolando scruta il vantaggio. Non interessano le morti e le disperazioni. Interessa compiangerle. Erigere monumenti di parole. Castelli di apparizioni  per ottenere il timore e con il timore il consenso e con il consenso il dominio.

Escludendo la  comprensione dei fenomeni per porvi solidalmente rimedio.

Non è questa la sinistra. Il buonismo non è sinistra. La sinistra è una regola di comportamenti austeri il cui fine è la tolleranza nella individualità e particolarità dei bisogni. È un progetto in divenire che assorbe, mescola, purifica le esigenze di un tempo circolare senza libertà preconfezionate e condizionate.

Ma la contemporaneità ha sconfitto la sinistra. Non la necessitazione della sinistra.

 

 

 

la “politica del diritto”  del 19 aprile 2015

 

 

La civiltà affida alla politica gli strumenti per la configurazione dei rapporti tra i contraenti sociali. Le leggi sono emanate nel tentativo del  più soddisfacente adempimento soggettivo dei rapporti,  in ogni ambito.

Non sempre.

Invero, in periodi di tentativi di asservimento delle libertà individuali e sociali, la politica produce.  leggi prescrittive e limitative del comportamento dei consociati. Ovvero, anche,  imperativi, evidenti o oscuri,  di obbediente appartenenza alla comunità; non curando, bensì violando, sentimenti etici e/o culturali, finanche necessità di sopravvivenza.

Diritto della politica nelle volontà ideologicizzate e millenaristiche, o pregnanti delle esigenze dell’utile culturale. Plasmate nello ius. Che è la funzione del modello estetico/metafisico in cui ordinare la rappresentazione dei comportamenti.

Con un modulo  piramidale che pone al vertice i principi etico/politici. Da essi discendendo i modi di gestione dei principi, ovvero le leggi.  Alla base, il  momento sociale della dissolvenza dei conflitti. Mediante la lettura e l’adempimento ai canoni di incanalamento dei rapporti infraindividuali.

L’astratta costruzione, sul modello estetico dello ius, presupporrebbe,  in sé,  una immutabile staticità dei comportamenti dei consociati. Giacchè l’attraversamento delle leggi avverrebbe con lo strumento della   condivisione quindi, assimilazione degli equilibri formali, nonchè morali,. finanche psicologici.

Con la dissolvenza perpetua dei conflitti.

Ma,  alterazioni infrattive, anche fortuite, casuali o impreviste, ne turbano ed alterano la immutabilità. Talchè,  la politica ha composto un sistema collante; demandandone la ricomposizione strutturale al giudizio; e, per l’attuazione del giudizio, al corpo degli officianti. Ovvero,  la magistratura.

Conferendo ad essa le garanzie di specificità del mandato; di restauro delle incrinature, conflitti e delitti.

Non,  la infallibilità. Non,  le prerogative di azioni  modificative sulla composizione del modulo comunitario.

Ma,  la politica ha tralasciato, abbandonato, la sua  esclusiva prerogativa e funzione di modifica dei canoni praticabili. Talchè la comunità sociale subisce la temporalità giurisprudenziale che, nelle devianze di interpretazioni filologiche, scardinano la precisazione dei comportamenti.

L’ interpretazione  si postula sull’arbitrio della intelligenza soggettiva. Per le forme, i modi, i metodi di esperienze; di vicissitudini di cultura da  cui essa  è venuta a temprarsi. Laddove, per legge cognitiva, sono recepenti di tutte le possibili influenze, immaginifiche o mediatiche. Anche,  influenze psicologiche, sotterranee, misconosciute della  propria indole genetica, delle frustrazioni, delle alterigie. 

Spontaneismo. Della politica del diritto.

Che da se si estranea; e infraziona il modulo dello ius. Con fessurazioni dove si infiltrano disattenzioni, ignoranze, abusi, discriminazioni. Con scelte di genere. Con fantasie risolutive. Con determinismo autoreferenziale. Con esaltazione del privilegio di scansione dei tempi umani.

La politica del diritto  commista moduli e metodi. In un crescendo di determinismo su rapporti infrapersonali. Qando, dove, la incensurabilità sostanziale è  il fondante della inviolabilità, della dimenticanza della provenienza. Umile, come l’umiltà dei  giudicati.

La politica del diritto precipita su una massa di disperazioni. Travolge le uguaglianze. Crea frangenti di  opportunità, di opportunismo, di soprusi.

Tra  inefficienze meditate. Tra interpretazioni filologiche. Quando il diritto vivente è l’abuso della fuga del diritto della politica.

 

 

 

terra mitica, terra mistica, terra negata del 26 aprile 2015

 

 

Pure essendo  prologo doveroso e necessario il riconoscimento alle dignità di presenza, di opera, di possibilità di ogni essere umano vivente, una interpretazione dei fenomeni immigratori – specie se a valenze epocali – non può e non deve sottrarsi ad avere come filtro le ragioni esistenziali, culturali, psicologiche che li sostengono e motivano.

Su queste ragioni causali, primigenie, trovano appiglio le successive manipolazioni economiche che incardinano nuove e diverse motivazioni esistenziali, culturali, psicologiche. Poi, scusanti e, poi,  altre manipolazioni; in una spirale di stravolgimenti continui con cui si perviene a nascondere,  proditoriamente,  le ragioni originarie.

Si affonda, così, in un miscuglio di giustificazioni, compiacimenti, incertezze che non hanno nesso con alcuna dignità o onore. Miscuglio che è la confusa attivazione della intolleranza. Alla fine, senza preavviso,  della negazione di sé.

Dovremmo e dovremo saggiare l’esperienza di accumulo dei percorsi intersociali su cui si sono figurate le società moderne e la modificazioni dell’imperio: da ebbrezza della forza a esortazione religiosa, da bisogni della vita a alterazione delle necessità.

Attraversando, per esse, il tribalismo e l’esclusionismo, lo schiavismo e l’espansionismo, lo stanzialismo e il trascendentalismo,  il nomadismo e il fedualismo.

Paradigmi -e metafore-,  sempre e comunque,  di ogni fenomeno migratorio. Anche nella contemporaneità.

Sappiamo, ma ci neghiamo,  che ogni uomo nasce in una terra. Sua propria giacenza e giacimento di risorse, affetti, memorie.

Sappiamo, ma ci neghiamo,  che questa terra sia una terra negata  quando l’uomo ne è allontanato. Per usurpazione, per devastazione, per famelicità, per appropriazione e sfruttamento delle risorse:  utilità  per il  profitto di ceti  o clan interni o di mire espansionistiche di gruppi nobili ed economici esterni. Ancora, perché no, per incapacità o impossibilità di adattamento; anche, di tutela. 

Sappiamo, ma ci neghiamo, che in una contemporaneità (di svolgimenti storici) di disvalori estetici e tecnologici, si consolidi il fascinoso della terra mitica. La terra dalle mura scintillanti d’oro  e dalle messi rigogliose e dai frutteti profumati. L’abbaglio viscerale subordina la ragione mentale ad essere protagonisti artefici della terra di se stessi. Edificatori pacifici del riscatto dai bisogni.

Sappiamo, ma ci neghiamo, che la divinità , nella motivazione ultra umana, carpisca a sé  la terra delle sue profezie, la terra del suo discorso, la terra mistica da preservare. Terra, verso il cui possesso si muove l’imposizione della conversione e dell’osservanza  per i ceti  nobili e servili della professione di fede. Ancora, per le terre sciamaniche dei sortilegi magici tra la immanenza degli spiriti.

Per e sulle ragioni  esistenziali, culturali, psicologiche – poi manipolate- significanti il valore di sé nel rapporto con la terra mitica, la terra mistica, la terra negata, si sono svolti i flussi migratori, dalle origini.

In un frammisto di sovrapposizioni genetiche. Foriere e afflitte,  però, da dimenticanze e, finanche,  rancorose non verso il diverso di sé,  ma verso la memoria di sé.

Questo sapere, questo riflettere,  è un prologo che è,  anche,  metafora di contemporaneità; dove la terra è  l’ambiente, il clima, l’esponenziale demografico, l’energia, l’uso delle tecnologie, la conoscenza scientifica, la produttività, la comunicazione.

Le migrazioni protettive dalla terra negata, le migrazioni viscerali verso la terra mitica, le migrazioni ossessionate verso la terra mistica, quindi, la  desertificazioni umana  della coscienza della propria terra, possono – e devono-  essere distolte dal farsi nella paura, nel terrore, nell’ossequio, nel sortilegio, nella illusione, nello spreco dell’esistente.

Garantendo le popolazioni tese alla migrazione  da saccheggi e spoliazioni di identità.

Garantendo la fertilità della loro terra e dei prodotti che se ne traggono, nella libertà di costumanza e di critica  che quella terra ha loro naturalmente concesso, per la  dignità e l’onore di ogni vita.

Ma, questo è un discorrere, dalle premesse,  su una impellente rivoluzione di metodo e di fine; nei rapporti etico/morali, politici, laici, della comunità  umana.

 

 

 

la “giusta” ingiustizia del 3 maggio 2015

 

 

è giusto!”: una proposizione affermativa ormai epitaffio per la ragionevolezza o, quanto meno,  per il  buon senso.

Con “è giusto!”, eloquiato o praticato,  l’umanità, le società, hanno operato  e consolidato ogni sorta di ignominia. Tutti gli spergiuri sulla condizione della libertà hanno trovato appiglio e considerazione, proselitismo.

Forse solo la fase istintuale dell’umanoide ha praticato l’etica suprema e incontaminata  della necessità, escludendo la condizione morale dell’ “è giusto!”.

Oltre fraintesi di estetiche sociali e di ideologie di ogni timbro.

La violenza – e con essa la strage dei competitori, anche sessuali,  invasori o  invasi - era nell’obbligo della sopravvivenza. Nella continuità genetica della stirpe. Nella percepita, non ancora elaborata, proiezione di essa verso l’evoluzione.

Il progressivo stanzialismo - e, prima ancora,  la richiesta di sopravvivenza proiettata  nell’incomprensibile,  nel soprannaturale -  e, finanche,  il nomadismo hanno obbligato alla previsione progressiva di un sistema scandito da atti e gesti  identificativi dell’appartenenza.

Riti, ritualità, ritualismi e,  per essi e tramite essi,  esclusivismi, estraniazioni: si formavano i popoli, si affermavano le culture, si disperdeva l’umanità.

Delineazioni  che oneravano al congetturarne i modi e i mezzi di confine; da qui la morale e l’etica,  le leggi e gli ordinamenti, il giusto e la forza delle leggi; sia nell’ambito dei costumi,  sia nell’ambito delle religionerie.

è giusto!” incominciava a risuonare nelle liceità concesse dalla leggi o nell’utile dei costumi o nella pietà della religionerie.

è giusto!”  risuonava nel coltello  azteco  pronto all’eviscerazione del cuore del sacrificato; “è giusto!” risuonava negli zoccoli dell’ orda d’oro lanciata verso il Volga; “è giusto!” risuonava nell’imposta abiura del Galilei. Ingiustizie, ma “giuste” ingiustizie. 

La “giusta” ingiustizia  ha richiesto per sé  sopportazioni devastanti ed ancor oggi, nella complessità della società globalizzata - laddove il cosmopolitismo e l’internazionalismo dovrebbero necessitare l’affermazione di una ideologia partecipativa, con l’esautorazione di incrostazioni moralisteggianti,  retrocedendo alla pre-configurazione delle culture ritualistiche – supporta e fermenta istrionismi e distorsioni informative,   come consentiti dalle tecnologie delle comunicazioni di massa.   

Innestandosi, in specie in Italia,  ancor più ferocemente nel tessuto sociale vivente e ponendo in essere giustificazioni a soluzioni “politiche”,  in contrasto con le esigenze di uguaglianza delle dignità, quali sancite dalla Costituzione.

La “giusta” ingiustizia invade la vita dei cittadini:  dalle gabelle pretese a sanare debiti contratti ad utilità altrui (perché “è giusto!” il risanamento del debito pubblico), dalla carenza sanitaria per i meno abbienti (perché “è giusto!” che le più rapide  prestazioni siano  effettuate a titolo privato); dalla diversificazione dell’interpretazioe dei codici e inefficienze strutturali  della giustizia (perché “è giusto!” che i giudici rispondano solo alla legge – ed a se stessi-   pur nell’essere funzionari dello stato, per concorso), ai licenziamenti e disordini dell’offerta lavoro  (perché “è giusto!” salvaguardare interessi di riassetto produttivo di più ampio rilievo finanziario e internazionale).

Si frammista alla meritocrazia cartacea, alle indoleze del parassitismo economico, al parolismo intellettualoide, all’ingenuismo furbesco; alla fine,  alle pretese di ogni genere di “ismo”: la “giusta” ingiustizia,  in ogni ambito.

Vero è che alcuno riflette – al rovescio sospinge – che la “giusta” ingiustizia renda inerme la comunità sociale, subordinando lo Stato Costituzionale ad  ogni alito di sopravvenienze terrifiche: di  vendita del costume identitario, di evanescenza alla  prostituzione ideologica, di asservimento all’ignoto.

 

 

 

la “ minoranza maggioritaria”  del 10 maggio 2015

 

 

Mi chiedevo e chiedevo – or sono cinquant’anni -   quale fosse,  per il gusto dello spirito sociale,   la più opportuna e felice scelta politica di etica della presenza.

Nel fascino meditato dei risuoni di gesta e pensieri vissuti, pure accantonati dalla storia ufficiale,  scelsi la minoranza.

La scelta  per le sue motivazioni già escludeva la condiscendenza e l’inglobamento nella tipicità degli usi tattici dei criteri maggioritari; dei modelli sociali che promovevano e dai quali erano, essi stessi, ciclicamente promossi; affondando tematiche e scopi in un moralismo persuasivo, nell’adesione,  e dissuasivo, nella facoltà  di partecipazione.

Includevano, tali criteri, la necessità della minoranza, per la sua presenza/sopravvivenza, a collaudarsi e proporsi come costituenda maggioranza; adottandone le forme di selettività indipendentemente dalle proposte finalistiche,  come partecipate.

Con un adeguamento di consenso  utile alla stasi delle condizioni di interessi succedentisi  dalla maggioranza alla minoranza (nuova maggioranza), in ogni ambito relazionale, intellettivo, produttivo.

In buona sostanza la minoranza non si sottrae a quella verticalizzazione del dominio che attraversa, con continuità, per stadi sovrapposti,  la aggregazione sociale.

Il principio di governo è il medesimo. Con perseverata immanenza di condizionamenti,  pure in  mutazione formale;  di cui il dominio fruisce. Ora, nelle forme differenziate della evoluzione tecnologica; ora, nelle sopravvenienze di squinternamenti  fideistici.

Se null’altro stimolo etico sopravvivesse alla stritolazione che,  di concerto,  operano queste masse moralisteggianti alcuna delle attività evolutive della condizione umana avrebbe destino e destinazione. Sarebbe il deserto delle staticità equipollenti:  l’assoluto del comando o la confusione isterilente.

Ma procede sotterranea, ignorata ed ignota, contrapposta e contraddittoria al costume osannante,    la consapevole esclusione dalla rilevanza  sociale,  nella comunità ad essa contemporanea, quella che io dicevo “minoranza maggioritaria”.

minoranza maggioritaria”  che si adempie  richiedendo   l’abiura del proprio interesse alla utilità personale,  riferendosi ad  un ciclo di  proposizioni e resurrezioni di creatività, intuizioni, soluzioni utili a sgretolare il principio di governo maggioranza/minoranza e l’adeguamento ad esso del consenso.

minoranza maggioritaria”  che è nell’arte, quando si estranea dalla committenza; nella ricerca, quando isola le tentazioni economiche;  nel lavoro, quando dedica le abnegazioni; nella politica, quando si isola per non pretendere vantaggi di crisi.

La “minoranza maggioritaria” prosegue isolata e sfugge, temendo, i consensi e quando ve ne perviene ne determina i modi della critica. Con umiltà, perché la sapienza e la saggezza ne sono i cardini fondanti. Cardini di quell’etica dell’ “uomo della ruota”, l’operaio della civiltà,   a cui si sottraggono le dispute della “politica”  della democrazia, del sesso degli angeli.

 

 

 

l’oscurantismo della imbonizione  del 17 maggio 2015  

 

 

Vi è un sotteso di religioneria pervicace nel proselitismo. La illusione/attesa/pretesa che ogni disagio patito o vissuto - in qualsivoglia  condizione statutaria, economica, esistenziale patita o vissuta – trovi termine nell’ammassamento soporifero delle capacità critiche e creative di ciascuno,  soggiacendo a soluzioni e  rimedi   taumaturgici o laicamente prodigiosi.

Le coscienze si adagiano, allora,  in compiacenze, sollecitazioni e finanche esaltazioni. Il delegato al compimento del sogno è il mandatario dell’acquiescenza, l’esorcista dalla paura.

Finanche la guerra, l’assassinio, il delitto si attuano in un campo di infertilità del terrore, dell’angoscia. Il  simbolismo dell’eroismo o dell’audacia è lo scudo protettivo da ogni incertezza. Il proselitismo vibra consensi, applaude del suo rifugio, sfida ogni niente per apparire pingue, e sempre più,  di vigoria. Pronto a mascherare ogni fragilità tematica con il consacrare le individualità opache e annientare il serpeggio di resistenza critica delle opinioni.

È il momento della tragedia,  del cupo  sociale che antecede la disgregazione della coesione dei popoli, la loro demolizione etico/sociale; che confina nel rammarico dell’incompiuto ogni tensione ed eventualità di progresso.

È l’oscurantismo. La reazione vorace delle lobbies di ogni connotazione e configurazione, del padronato finanziario, del padronato ideologico, del padronato culturale,  delle forche mediatiche.

Il metodo è la furberia prestigistatoria dell’imbonizione. L’abbacinamento di una pietra filosofale, di cui si annuncia il possesso e unica a rendere il  mondo perfettibile,  nel mentre si opera il riavvolgimento sotterraneo delle necessitazioni morali e vitali cui,  quel mondo,  è faticosamente, con drammi, pervenuto.

L’imbonizione non richiede sacrifici, li obbliga;  non realizza benesseri, li fantastica; non persegue logiche,  le subordina;  non facilità le libertà, le snatura.

È l’oscurantismo dell’imbonizione.

La strategia perversa è il pervenimento ad un proselitismo totalizzante che sia devotamente gestore degli spazi che conferisce il  mandatario dell’acquiescenza, il capo.

In una sorta di  vassallaggio; nuovo,  perché i confini dei territori sono algoritmi; nuovo, perché le decime sono flussi finanziari; nuovo, perché il servaggio è segnato da categorie di funzioni; nuovo, perché le inquisizioni operano la dottrina dove dovrebbero fermentarsi le eresie; nuovo, perché la multimedialità  manipola le carestie. Ma, vecchio;  per il piacere tenebroso dell’arroganza amicale pronta alla voragine del compromesso utile o alla spregiudicatezza dell’odio, nell’odio.

Soffriremo l’oscurantismo? Subiremo la reazione?

Temo per la Repubblica.

 

 

 

predatori e prede  del 24 maggio 2105

 

 

La pasta si vendeva sfusa,  traendola da involti color lavagna;  i biscotti, pure essi sfusi e stipati in grandi scatole di latta,  con un vetro  perché se ne scorgesse  l’interno. I biscotti si vedevano, ma non si compravano;  sostituiti dal pane, protetto dallo spreco  nello stipo,  abbrustolito sulla carbonella e, poi,  condito con sale, olio e origano.

Erano i tempi dell’immediato dopoguerra;  con la eccellenza nutrizionale delle “uova fresche”,  fatte ingurgitare  con la spruzzata di limone, ad ostrica.

Sui banchi di marmo, la farina aveva già l’odore della pizza che veniva via dal forno con la saporosa e sana sporcizia di  scoppiettii e vampate,  del legno che ardeva. La pasta si intorpidiva nell’abbraccio del pomodoro,  rosso e selvaggio.

Poesia della nutrizione, forse.

Al cui ricordo e gusto si è sottratti dalla presupposta, necessaria,  velocità che viene dall’ossessione  del vivere. Il cibo è più igienico, più dietetico, più grazioso, nel confezionamento industriale. Tra cartoni,  celophan e etichette colorate, adescative,  con scritte come tavole delle leggi, per le pretese cognitive  dei nutriti.   Mentre,  le piogge sono silenziose nel loro essere acide e non si presentano  nella  prima scatola del prodotto;  poi nella busta di confezionamento; poi,  nella busta di asporto.

Gli addensanti, i conservanti, i coloranti, i grassi, i “calibri” impegnano laboratori e studi per valutarne conseguenze alterative della salute e porre in essere alternative che causeranno altre  anomalie che impegneranno, a loro volta, laboratori e studi. Mentre,  le api scompaiono, forse licenziate dalla moderna  genetica e dalla semina intensiva.

Gli integratori dietetici si insinuano tra le speranze degli eccessi o delle deficienze. Mentre al  grano, nei silos e nelle macine, poi,  nelle farine, si mescolano nano particelle tossiche.

L’industria distribuisce, con avanzamenti progressivi,  la nutrizione;   desertificando risorse e stimolando adeguamenti e acquiescenze tra autoreferenzialità e stimoli di moda. Le esposizioni esaltano, sbalordiscono, incuriosiscono, convincono, vendono.

Nel frattempo in qualche parte del mondo, questo mondo, i bambini (sono bambini, anche a loro cola il naso) sgranocchiano formiche-caramelle mentre i genitori si viziano con tarantole arrostite e leccornie di larve. Altrove (diceria?)  un cervello umano, ma solo per rito,  qualche volta  è un’occasione di convivio.

La primigenia funzione della nutrizione è, in evidenza, la sopravvivenza; ma,  la complessità della formazione culturale dell’uomo, per le diversità dei suoi adeguamenti e/o isolamenti ambientali,  porta a determinare i modi in cui essa si soddisfa. Dovendosi mettere in considerazione le incidenze mistico religiose, taumaturgiche, competitive. Tutte scaturenti e incentrate nel rapporto, oggi vitale,  predatore-preda. Fondante di ogni violenza.

L’industria dell’alimentazione,  pure nella cinica  attuazione della   induzione al consumo dei suoi prodotti, di certo inconsapevolmente,  attua una attenuazione progressiva delle diversità nutrizionali che può condurre alla eliminazione del conflitto tra  predatore e preda. Incongruenze e contraddizioni di una post-modernità priva di idee.

Ma si potrebbe, qui, oggi, prevedere ed attuare lo sterminio dei predatori  e rendere agli uomini l’eden senza il serpente?

 

 

 

2100 anno domini : eurafrica o eurasia o afrasia  del 31 maggio 2015  

 

 

L’etica richiede regole virtuose ed eque; la morale,  adattamenti e mascheramenti,  quindi vaniloqui e ricatti.

Così,  la colte di morti che, oggi,  ricopre i mari; ieri, .  la Tlatelolco  degli atzechi – oggi per pietismo, ieri per redenzione- sconvolge e abbacina i giudizi.

In una comunità - che si  ritiene adulta di autonomia critica -  gli effetti di una carneficina dovrebbero portare non a compiacimento per la propria capacità ad emozionarsi, ma a nude consapevolezze sulle cause scatenanti  gli eccidi; finanche - e per estremo - al di là delle valutazioni, feroci e ferali, che possano attribuirsi, per la cultura di ciascuno, alla condizione umana.

Senza inondare,  provocare, alimentare,  sostenere  le convinzioni  con le ignoranze di politiche e necessità monetarie di una economia da liberculi  enigmistici;  dove si propugna una barbuta esaltazione della morale dell’eccesso.

Sfugge, allora, il viceversa contemporaneo delle  pan-europa (l’ ”eurafrica”), del teorema geo-politico sviluppato durante gli anni 1930/1940.

All’epoca, l’Italia e la Germania  prospettarono la creazione di una unione federale degli stati europei, includente anche le  colonie francesi e con esclusione dell’Inghilterra e i suoi dominions.

Un progetto politico che aveva motivazioni  da tre dati interconessi:  il primo, nell’assenza di autosufficienza dei sistemi produttivi (l’Africa); il secondo,   nella necessità di fonti di materie prime (l’Europa); il terzo,  nella opportunità di svuotamento dei propri territori (l’Europa) da una manovalanza industriale in eccesso.

Cerniera del progetto: il mediterraneo, inteso come “spazio vitale eurafricano”.

Il permanere nel post-colonialismo di società clanistiche  - peraltro esasperate da afflizioni pan-religiose e mistiche - ha consentito la sedimentazione di poteri isolati ed isolanti, conflittuali e dominanti,  con esclusione delle popolazioni dai rapporti culturali e sociali con cui erano stati ammansiti - e di cui  avevano goduto -  i referenti del comando - oggi “signori della guerra” -   nel periodo coloniale.

Con una perseguita dissimulazione delle potenzialità delle fonti di materie prime sul territorio, stasi ad una economia pre-agricola,  con  svendita delle risorse minerarie; anche, con tacitazioni, prezzolate e convenienti,  concordate (e/o subite) con assi geopolitici/economici.

Qui  il motivo del “viceverso” contemporaneo dell’ ”eurafrica”.

L’allontanamento dai territori di un corpo sociale agricolo,  operaio, intellettuale,  non inserito nei criteri di accaparramento e sfruttamento – in ogni soluzione- delle risorse primarie.

Con similitudini inquietanti: la influenza europea della Germania, la sponda mediterranea, il rigidismo isolazionista nordico (volto alle risorse energetiche petrolifere del Baltico), la necessità di una numericamente rilevante mano d’opera (a basso costo, se clandestina  e ricattabile, o a tempo determinato)  per vanificare le pressioni di tutela sociale dei  sindacati.

Con un sottinteso politico oggi inindagato,  ovvero taciuto e, forse,   finanche inconsapevole: il popolamento dell’Europa,  da parte di migranti africani,  potrebbe rivelarsi in una deflagrante consapevolezza di etnia; questa  condizionante  una subalternatività politica, europea,  all’accesso alle fonti  minerarie africane.

Decadendo, anche, il ruolo di protagonismo industriale e culturale dell’Europa;  con una conseguente necessità di una inversa  migrazione  del corpo sociale agricolo,  operaio, intellettuale,  per eccesso di popolamento del territorio.

L’ ”eurafrica”  potrebbe essere una previsione geopolitica sull’osservazione dell’oggi,  ma le condizioni di progressivo sovrappopolamento della Cina e dell’India - con il protagonismo tecnologico che mostrano e che hanno connessione necessaria  alle risorse minerarie del “centrafrica” e della “subsahariana”  (in specie di tantalio  -essenziale tra i componenti dei sistemi informatici-, oltre l’uranio, il rame, il titanio) -  potrebbero  convergere per l’attuazione di un nuovo asse geopolitico/economico: “afrasia”.

Quest’ultimo in grado di sconvolgere gli ambiti-mercato attivi  tra  l’Europa e l’Asia  – traversando il  medio oriente – sull’asse “eurasia”; asse, comunque,  già minato - e vacillante - dal pan-islamismo africano.

E l’Australia? E il sud America? E gli Stati Uniti?.

Nelle teorie delle influenze, per la velocità della globalizzazione, tutto è mutevole, tutto è posto in discussione.

 

 

 

i partiti antisommossa  del 7 giugno 2015

 

 

Se le risultanze del recente voto (voto confluito sui partiti e coefficiente di astensione) si  inserissero come coordinate algoritmiche di un “gioco di guerra” questo si potrebbero svolgere come  conflitto tra due armate: una con i vessilli della “stasi”, l’altra con quelli della “crisi”.

La prima strutturata secondo rigide e verificate linee di comando,  oltre capacità di sussistenza e la seconda organizzata (disorganizzata) per gruppuscoli, con codici di comunicazione crittografati alla improvvisata necessità; priva, finanche, delle  mappature delle zone di battaglia.

L’esito inserito negli algoritmi, per le condizioni di probabilità,  non potrebbe essere che la vittoria della armata della “stasi”. Con una benevola considerazione verso l’armata della  “crisi” derivata, soltanto,  da incapacità del giocatore nell’uso dei comandi idonei ad animare il virtuale.

Ipotesi imprevedibile, quella di non sapere applicarsi al gioco, che non vanificherebbe, però,   le  previsioni conclusive del modello matematico.

Ma potrebbe verificarsi,  causa una dissennata creatività fantasiosa non tollerata dalla logica matematica del sistema, un impazzimento dello stesso. Fine del gioco e battaglia vinta dall’armata della “crisi”.

La metafora – per alcuni versi già trattata filmicamente – cala sulle impressioni che possono desumersi,  analiticamente,   sugli  strumenti  utili  al mantenimento dello stato di soggezione e di influenza; anche  in un  ambito di democrazia politica.

Si legge nella storia dei sistemi istituzionali – in ogni forma – che l’acquisizione - e la prosecuzione -  del potere si attua con le armi e  la gestione del diritto: la paura e la resa,  il divieto e la condanna.

A tal fine,  la catena di comando e le strutture utili al contenimento di aggressioni si pongono in essere e si attuano attraverso un  ginepraio di  sovrastrutture di gestione e controllo, efficaci  a perseguire un duplice scopo.

Con uno,  si sedano esigenze di ambizioni allo status sociale, fidelizzandole (quindi attuando uno scudo di compiacenze);  con l’altro,  una palude di normative, anche concessive,  in cui paralizzare ogni perforazione delle protezioni costituite: clientela e burocrazia che trovano  legittimazione nel diritto che esse stesse contribuiscono ad esigere e postulare.

Uno schema che non  prevede e non tollera,  non consente  e non subisce,  modificazioni territoriali, rappresentative, istituzionali, sollecitate e promosse da teoremi politici interni se non fondati sulla coercizione armata (rivoluzione) o sollecitati e sostenuti da pressioni economiche esterne (complottismo internazionale).

Ma sfugge, al determinismo  dello schema,  la pulsione all’evento esplodente  insita  nella emotività  di massa laddove la socialità subisca la compressione verso una  sub-dignità della presenza esistenziale/economica: la  sommossa; con la sommossa,  l’impazzimento dello schema.

Ma la sommossa, nella sua  deflagrazione,  non è predisposta a formulare temi politici e teoremi istituzionali. Esaurisce il suo impeto nella sola distruzione dell’esistente, del rifiutato, della ringhiosa colpevolezza della propria subiettività sociale. Ovvero, si incancrenisce in una “stasi” rivendicativa, appropriatrice, violenta, negatoria della giustizia a cui si era promessa.

L’astensione dal voto può esserne un segnale premonitore; in specie se venisse ad inasprirsi una politica di divaricazione economico/sociale - non tra le classi ma tra i ceti - con incremento  esponenziale della  percezione di essere oggetto di angherie.

La “stasi” ha un solo rimedio: interrompere il “gioco di guerra”.

E il gioco si interrompe dando incremento e facoltà ad aggregazioni movimentiste o partitiche di alimentare (ma circoscrivere e definire) il disagio e la protesta in ipotesi censorie;  laddove  vaniloquio ed obiettivi insensibili si esaltano nel paventato sfacelo della solidarietà etico/politica, sfuggendo la consapevolezza (o furbescamente adeguandola) dell’assumere il ruolo di  retroguardia  difensiva della “stasi”.

La strategia che va in atto è, quindi,  quella di fare assorbire (sedando) le spinte della esasperata sofferenza sociale a “partiti antisommossa”; partiti - del e nel “sistema” -   utili alla “stasi”  per il  mantenimento delle clientele e della burocrazia;   dello schermo protettivo  inestricabile  al cui riparo far prosperare tutte le forme di influenza, di soggezione, di obblighi.

Potremo annoverare tra i “partiti antisommossa” i non più partiti dell’antipolitica “Lega” , “M5S” e, forse, l’ipotesi aggregativa di Landini?

In attesa di una sincera e forte teoria politica per il XXI secolo, avanti che trascorra

 

 

 

sinistra,  sinistrismo,  sinistroidismo   del 14 giugno 2015

 

 

Il rosso è stato sempre il colore di cui ho abusato. Forse per sottesi temperamentali  o psicologici (qualcuno direbbe). Cospargevo la tela di intense lacche di garanza o carminiate. Graduandole tra toni addensati  o inteneriti. Una sorta di ossessione del sangue, di pulsione  delle arterie che increspavano le  mani frenetiche. Potrei dire: un delirio. 

Sulla tela i colori testimoniano:  dicono o tacciono,  non sanno dire e non sanno tacere; lì, il rosso è il rosso delle sue densità e delle sue  velature;  è lo spettrogramma delle idee  e della commozioni, distillate una dopo l’altra.

Di converso non amo, non posso amare, il rosso volteggiante delle bandiere: la luce ne altera intensità; lo confonde, lo nasconde nelle ombre delle volute. Segue le mani dello sbandieratore o del portatore, ne condensa i vibrati di emozioni, esibizioni, interessi.

Anche, mistificazioni e appannaggi di benevolenza.

Il mio rosso è  il rosso della pulsione delle arterie. Il rosso della sinistra.

La sinistra è una categoria dell’etica. Il dispiegamento della coscienza laica dell’esistente; oltre ogni presupposto di dogma, oltre ogni baratro culturale e scientifico. È il grido di lotta contro la robotizzazione umana; contro  la svilimento, la mortificazione, l’isolamento, la depauperazione, l’asservimento  dell’insito fantastico e creativo del pensare,  di ogni singolo individuo.

La sinistra  è composta severità  di giudizio. Mai pietosa, sempre compassionevole; mai cedevole, sempre dialettica.

La sinistra è la rivoluzione  di libertà  consapevoli. Libertà  che indica, che convince, che coinvolge; in una rinnovazione costante, tenace;  che non soffoca,  o reprime,  per creare altari di eroi, martiri, santi.

La sinistra è l’intransigenza dei comportamenti. Mai giustificativi ma, comprensivi;  mai volti agli effetti ma,  alle cause

La sinistra è la pratica della necessità morali e vitali;  mai l’apologia del bisogno o della pretesa dove annidare lo sfruttamento.

La sinistra è  la terra dove ciascuno vive;   raccontando  e offrendo i propri riti.

I  volteggi delle bandiere,  tra mistificazioni e appannaggi di benevolenza, dispensano il sinistrismo e  il sinistroidismo.

L’uno, il sinistrismo,  artefice della frantumazione dell’etica attraverso  la  anomalia delle condotte altalenate tra mistiche decostruttive,  appropriazioni e svolazzanti esibizioni ribellistiche:  le une e le altre, pure vanamente violente,  svellate da ogni tensione di progressione sacrificale.

Il sinistrismo è il più aspro  contrasto, denigratorio, portato  alla sinistra; ancorato alle tensioni sovversive del XX secolo,  senza percepire, dell’oggi, la diversità dei sistemi di difesa e di controllo dal potere mondialista; quindi non dedicandosi a fomentare e fermentare alternative di coscienza sociale, belando alla luna, senza conoscere la ghigliottina.

L’altra, il sinistroidismo, raccoglie tutta la feccia  dell’opportunismo. Dell’incultura e dell’usura  morale (e del sovrapprezzo di possesso). Il suo metodo politico è  la elargizione di stupita, compiacente,  benevolenza verso ogni mutazione dell’indirizzo di gestione dello stato; confidando  che possa gratificare scalate sociali ed arricchimenti.

Il sinistroidismo è  il “per sé”  del moralismo,  l’armata dell’apparire buonista, del lacrimoso latifondo immobiliare, economico, intellettualistico, pubblicistico, religioso; esegeta della commiserazione e,  allo stesso tempo, accaparratore della miseria.

Soltanto la sinistra è il  rosso addensato e intenerito  della rivoluzione in cammino.

 

in onore di andrea costa, pietro nenni, francesco de martino

 

 

 

mercatini di carne umana  del 21 giugno 2015

 

 

La verifica delle pulsioni sentimentali assurge a morale. La verifica dei comportamenti,  ad etica. La verifica delle relazioni,  a politica.

La morale inorridisce,  sgomenta,   di fronte a devastazioni e stragi. L’etica sanziona  la necessità delle rimozioni radicali delle cause.  La politica applica la sua funzione mitigatrice  della inflessibilità sorda.

Ma la politica, assurta a socialità confusa e confusionaria, immobilizza il divenire delle probabilità esistenziali. Dell’antefatto ignoto  della coscienza.

Di certo,  uno o mille o centomila morti  non intaccano la proliferazione della specie umana,  eppure uno solo degli strazi subiti da un solo essere umano condiziona tutte le possibili interrelazioni tra essi.

Alla politica, alla socialità, servono morti. Per vincere o per perdere,  non importa. Uno, mille,  centomila morti. Nelle trincee, nelle esondazioni, nelle frane, nelle acque  inquinate. O consumati sino alle ossa  dalla chimica delle fabbriche, da cibi tossici, dai virus dei laboratori, dal furto del lavoro, dalla spoliazione della terra, dalla solitudine. Per vincere o perdere, non importa.  I morti hanno un prezzo: si vendono con il cartellino della pietà. O,  di quelli più colorati  di solidarietà,  comprensione,  tolleranza.  Con sfilate nei cortei, presentati  con saggi di  retorica consumistica, nelle commemorazioni tra svolazzi di bandiere. Tra commozioni improvvisate e imbellettate. Con toni imperiosi e imbonitori del venditore di stracci al mercatino rionale.

Ma, si vende carne umana.

Per smerciare occorrono inquisitori e carnefici. Giochi da circo e roghi pubblici. Incantesimi di stregoneria, per distogliere dagli strazi e occultare i macelli. Di ogni giorno. Vicini o pure lontani. Dove il lucro e l’accaparramento mutilano civiltà e corpi. Devastano  esistenze o esasperano dissensi privi di volontà. Alimentano, senza tregua, la cause che si disperdono, ignorate,  nelle volute di incenso degli esorcisti.

Si commemora. Ma, non si osa. Le regole soccombono. E il mercato è ogni giorno più ricco.

 

 

 

il cannibalismo delle idee  del 28 giugno 2015

 

 

Corpi dilaniati e macellati. Adolescenti venduti a pasti sordidi.  Finanche bambini eviscerati vivi per sorseggiarne la bile.

Non basta inorridire per rifugiare il non voler sapere negli incubi che svaniscono. Certe tracce ( le più, nascoste) si rinvengono ancor oggi.

Il cannibalismo ha pervaso il mondo da tempi remoti. E molti temono di averne tracce drammatiche di discendenza.

Nel ritualismo l’abbeverarsi del sangue o trarre nutrimento dalle carni vive o dalle spoglie esalta  sciamaniche convinzioni di predare forza e sapienza dall’avo o dalle energie sconosciute che addensano il vivere.

Fare della carne altrui  la propria carne. Possederne l’anima. Poter godere di  un’anima “ricca”, più potente, più guerriera, per dimostrare ed essere dominatori. Non del tempo. L’immortalità è un sotterfugio. Un pretesto per rabbonire l’invidia del desiderio. Per eludere o eliminare competitori. 

Un trasporto materico, una confluenza nel proprio ”sé”, che potrebbe avere una qualche traccia motivazionale in conoscenze antiche e dimenticate; balenanti , odiernamente,   nella teoria quantistica della coscienza e dei microtuboli.

Potrebbe. E nel potrebbe ne è già esplicita l’interpretazione distorta, giacchè la coscienza quantistica è una coscienza non comparativa,  ma omogenea; che si contrae e si espande  come totalizzante di ritmi ciclici.

E se il cannibalismo volto a membra umane  - pure quando  riferito alle esigenze della sopravvivenza (per tutte: Stalingrado) -   ci fa rabbrividire di raccapriccio,  viceversa siamo assonnati dal percepire - con uguale, se non maggiore,  disgusto-   il cannibalismo delle idee.

Il mondo moderno ha sostituito asce e coltellacci con la psicologia, la sociologia, la neurologia.

Seziona pensieri, istinti,  fantasie: le cataloga. Produce desideri, felicità, mondi iperuranici: li propina e vende,  per profitto sull’emulazione. Poi, chi emula ricicla il desiderio e accumula nuovo profitto.

Le idee si producono serialmente, per i pasti  incorporei del nuovo cannibalismo. L’una si nutre dell’altra. Si conflittuano omicidiarie e, come il pasto umano non accumula anima, così il cannibalismo delle idee non accumula conoscenza.

I falò del pasto non hanno più  luogo in un posto iniziatico o segreto e inviolabile,   ma milioni di luoghi/posti, come lucciole serotine, sui social, pay tv, emittenti di stato, giornaletti, opuscoli.

Qui, consuma,  la stregoneria  mediatica degli interessi della “politica”.

Seducono, affascinano, convincono. Agitano il proselitismo. Esortano alla condivisione. Plasmano la massa,  foraggiata dall’esaltazione. 

Idee in rissa,  in disputa;  per un pezzo di simulata ragione o apparente  novità: l’una cannibalizza l’insipienza dell’altra.

Allora, tra gli attizzatori del fuoco, i bruciatori dei libri, i macellatori della utopia, i ruffiani del mercato,  il pensiero diventa clandestino,  patriota, partigiano

 

 

 

Grecia, la storia aspetta  del 5 luglio 2015

 

 

In una dimensione geopolitica confusa dove la definizione Europa afferma e nega all’istante se medesima,  tra prospettazioni stataliste e glocaliste (termini classico-teorici per definire: l’una  una società di Stati configurata orizzontalmente, priva di autorità superiore regolatrice – statalista, centripeta -; l’altra  con attori istituzionali subordinati a un’autorità sovranazionale gerarchica e verticalizzata – glocalista, centrifuga-),  la questione Grecia può assumere ruolo di “grimaldello”,   non tanto per la modifica delle situazioni  economico-politiche della Unione,  bensì in chiave  di argine alla espansione e prevalenza  di una escludente multicultura  euroafricana sul territorio europeo, non riferita a culti religiosi.

Tra le verbose diaspore  “poltiche”,  poco si dice  - o  si è detto-  delle potenzialità minerarie della Grecia che,  in quanto a risorse,  risulta essere il  terzo paese nell’Unione Europea;  dopo Finlandia e Svezia (il secondo, dopo la Finlandia,   per quanto concerne l’oro; la cui estrazione basterebbe  a risanare, in 25 anni,  l’intero debito greco).

Il sottosuolo, vieppiù,   ha grandi risorse di “terre rare”   (che vengono importate dall’Unione  per oltre il 90%) la cui penuria, nei prossimi venti anni,  potrebbe portare ad una contrazione della produzione nel campo delle tecnologie dell’energia eolica, solare o nucleare e, anche,  veicoli elettrici, telefonini,  missilistica spaziale, satelliti e altri prodotti di altissima tecnologia.

D’obbligo, allora,  la riflessione che non possano non esserci  potenti interessi di lobbies internazionali – industriali, finanziarie e , perché no?, criminali  -  sull’acquisto a basso prezzo  del territorio  greco, usufruendo ed applicando  la tecnica degli istogrammi, degli ortogrammi, dei diagrammi più confacente, oltre ogni discorso su sovranità e autonomia democratica dello stato greco.

Ma, sotteso nei meandri imperscrutabili delle ideologie politiche (delle “improvvisazioni politiche”),  potrebbe essere insinuato un progetto di confine  che dalla Russia alla Grecia traversando i Balcani  distingua il futuro/possibile territorio multietnico afroeuropeo dai territori e dalle popolazioni indoeuropee; preservandone  esclusivismo ed autonomia di cultura.

Un progetto che,  in un qualche modo,   scardinerebbe  la politica “glocalista” (nella specie, conservatrice) degli Stati Uniti  in medio oriente, escludendo l’Europa e   indirizzando la Turchia  a riequilibrare  i rapporti  “statalisti”  panarabi, anche attraverso comunioni di intenti con lo stato palestinese; poi,  con conseguente modifica dei contenuti di ingaggio della NATO, ormai obsoleti nel fronteggiare una paventata minaccia del Califfato.

Con un paradosso “di vendetta”:  si riproporrebbe  una sorta di nuovo “asse”  ariano/mediterraneo  che  non vedrebbe  protagonista  l’espansionismo  tedesco.

La Storia aspetta.

 

 

 

responsabilità e democrazia quantistica  del 12 luglio 2015

 

 

Il consumismo dei diritti,   venduti sfusi o all’ingrosso,  inebria il sognante collettivo di un uniformismo  che  si ingozza di utilità roboanti, seppure precarie e fugaci.

È il persuadente della democrazia.

Di quella democrazia di pronunciamenti,  per fraseggi;  come  titoli e slogans stampigliati sugli adescanti involti argentati  di caramelle e bon bon.

Così,  la democrazia assurge a sacerdozio del piacere di ciascuno.

Delle utilità che ciascuno ritiene gli convengano. Che ciascuno oppone all’altro e  alla comunità nel suo insieme. Che ciascuno afferma essere lascito, e strascico,  di lotte  per la libertà o la dignità. Salvate al sopruso, con  lavaggio di sangue. Che ciascuno occulta all’invidia, al brigantaggio, al ricatto.

La democrazia è lo strumento paradigmatico, vivente,  dell’ ”utile”.

La panacea dell’interesse delle piccole o strabilianti viltà, dei sotterfugi, dei segreti a fil di labbra; tra armi o monete o alcove.

L’ “utile” (già categoria della morale elevato a  filtro primario  della articolazione democratica della contemporaneità industriale -nei sotto/insieme culturali, esistenziali, economici  e nelle loro, rispettive, multiple diversificazioni  a cascata-),  degrada oggi la sua funzione di distributività dei poteri sociali (legislativo, esecutivo, giudiziario); esautorando, di tal guisa,   il criterio maggioritario (e con esso il suffragio universale) sino ad azzerare il primato dei patti costitutivi.

Si configura, a leggere bene, un implicito monito alla urgente necessità  di superamento – modifica, evoluzione, rivoluzione -  di  interpretazioni deterministiche,  incapaci di modificare le proprietà del sistema nello spazio e nel tempo.

Talchè,  occorre analizzare la ampiezza delle probabilità  di un poi  generato da  un salto quantico che connetta insiemi culturali per la configurazione  di un  reticolo di densità variabili,  atto  alla individuazione e organizzazione dei diritti.

La situazioni  che si osservano cambiano qualità e possibilità di avveramento e sussistenza, nonché di destinazione evolutiva,    in relazione  al criterio di misura  adottato per valutarle  e,  in una democrazia  quantistica,  il superfiltro reticolare di valutazione (con i relativi sottospazi) può essere la “responsabilità”.

Nel salto quantico si  evidenzierebbe il trascorso riduzionismo istituzionale e sociale provocato dalle fomentazioni della “società delle lagnanze”, dei cortei e degli urli a dismisura  democratica, della paralisi della efficienza, dell’evidenza dell’”utile”  propinato  come potenza di diritti da categorie e/o dalle caste.

La “responsabilità”, come morale quantistica (ovvero, coscienza di svincolo dall’ “utile”), fermenterebbe le libertà di opera e di pensiero, le libertà di arte e di esistenza, le libertà di osservazione e di sapienza.

In una decomposizione della rappresentatività verticale.

Democrazia  quantistica,   dove sia  possibile  che il  silenzio dell’anacoreta  plasmi l’acciaio  negli altoforni.

 

 

 

la tortura degli innocenti  del 19 luglio 2015

 

 

Anni addietro, visitando castelli, incorsi nella spaventevole percezione di strazi che rimbombavano, su per le profondità di “fosse dei suppliziati” o “pozzi delle vergini”.

Rimanendo discosto dalle pareti, grezze e torve– il dolore o il luogo del dolore non si osserva confinandolo a spettacolo –,  sopraggiungevano riflessioni non veicolate dalla pietas,  ma dallo sdegno, dalla ribellione, verso la irrisione allo smembramento,  alla eviscerazione, al trucidamento di cuori e coscienze, alla tortura sadica e compiaciuta; in un torbido rinvio di sghignazzamenti tra armigeri , boia, despoti.

Così che tra le innocenze devastate, oltraggiate, anche il più atroce dei delitti, la più miserevole delle colpe risolveva la sua ferocia nella ferocia di altri. In un turbine di espiazione che ne restituiva la innocenza.

Un cumulo di senza fede, di figlie di satana, di coltivatori e cantori dell’infinito, ammucchiato nei legacci della ruota o penzolante sulla fornace o donato all’amplesso con la “vergine”: l’ammasso delle libertà bruciava;  stordendo di silenzi la tortura degli innocenti.

Ma se la preposizione “degli” dal valore specificativo si volge al valore causale (“per opera degli”) agli “innocenti” si viene ad  attribuire non più il significato di “torturati”, bensì di “torturatori”.

Invero,  il compimento di un atto – il più sacrilego, intemerato, spietato – sotto l’imperio di un comando o di una legge rende socialmente “innocente” colui che lo compie. Atto dovuto in obbedienza al potere o alla prescrizione della norma, cui ha espresso giuramento di fedeltà;  o,  per il quale ha ricevuto un prezzo. Il prezzo del boia.

Svaniti pozzi, trabocchetti e oscure stanze di tortura (ampliate all’aperto, in ossequio alla velocità modernista, quali campi di sterminio o spettacoli della morte orrida) gli “innocenti” vagano, indistinguibili,  nella società contemporanea; con divise casual o doppio petto,  a volte salmodiando versetti e dogmi divini e tavole delle leggi o esibendo titoli e  ricchezze.

La “tortura” consente accessi a innocenze benemerite, acquisite praticando i nuovi impalamenti  incorporei delle sequenze, ad influenza psichica, della persuasione/dissuasione,  dell’adempimento/irrisoluzione, della concessione/negazione.

Per  ottenere  lo sfinimento delle singole vitalità;  conducendole  ad una espropriazione della vita, da se medesimi, o ad una conveniente appropriazione o silenziazione dei beni materiali e/o immateriali del torturato.

Per i senza fede, le figlie di satana, i coltivatori e cantori dell’infinito non saranno approntate crocefissioni.

Essi saranno resi inascoltabili, incredibili, intollerati.

La giustizia, i media, le saccenterie prezzolate, i sacerdozi della mistificazione e dell’inganno, i possidenti delle case, della terra,  del lavoro, falcidieranno attese e diritti, mistificheranno propositi e garanzie.

Il fine: una nuova catasta di umanità  derelitta  non più  stipata e dimenticata  tra le intercapedini di  mura castellane,  ma tra le pagine dei giornali, tra video su you tube, tra sentenze di tribunale.

Pure, il macrocosmo della nuova tortura aleggia tra gli stati. Tra gli interessi delle oligarchie. Con le mannaie economiche che calano per compiere genocidi. Esenti da colpe. Innocenti.

La mia coscienza (consapevolezza della funzione incognita della mia vita nelle funzioni incognite del caos) mi porta a eludere la pietà e scongiurare il perdono; non poggio su di essa le risoluzioni. Sono un senza fede. Sono un  giacobino, pronto ad allestire la ghigliottina per l’ordine etico della condizione umana. Ma, ma non consentirei mai che la leva della mannaia fosse nelle mani di un “innocente”.

 

 

 

il terrore delle dissimiglianze  del 26 luglio 2015

 

 

Monta (strenuamente insinuata da strategie di impossessamento dei riferimenti) una espansione sconvolta delle tematiche dell’uguaglianza. Uguaglianza esasperata nel senso formale e, perciò, inadeguata a  comporsi e attuarsi  come uguaglianza sociale.

Le affinità vengono, allora,  macinate nella omogeneità. Le diversità bandite e  confinate  nella conformità. 

Piaccia o non piaccia, fisicamente (e con le manifestazioni e utilità della fisicità, dei sensi) l’uomo è un prodotto dell’ecosistema: materia organica, materia organizzata, materia vivente.

L’ambiente in cui presenta la sua propria e singolare esistenza ne modella  caratteristiche identificative: morfologiche, esistenziali, comportamentali.

I suoi suoni,  i suoni della sua parola,  sono – sono stati - modulati  sulle percezioni sonore della terra e di tutto il vivente che, insieme a lui,  scorreva su di essa.

Invero,  i suoni anglosassoni  non potevano che essere i suoni dei rimbombi dei fiordi. I suoni arabi null’altro che quelli del fruscio delle sabbie mosse al vento. I suoni latini nell’altro che quelli  delle greggi e del cinguettio dei passeri.

Poi, il suono della parole distingue il pensiero;  già distinto tra predazioni nelle savane e campi coltivati;  tra vendemmie e sgorgare di pozzi.

La dissimiglianza  è il dio (dea) Hapy  ermafrodito, padre e madre, della fertilità del pensiero creativo. La potenza dell’ “uomo idea” che piega, alla sua idea, l’idea del cosmo.

Le “scienze” del diritto, delle politiche, hanno mistificato, assoggettato a concetti  astratti i valori solidi e corposi e fertili  della terra. Scienze, prologomeni alla democrazia senza identità,  per un uomo perso, disorientato, annichilito,  demolito  nel “tutto vale per tutti”.  Disancorando il bisogno dalla valutazione sulla esigenza del bisogno.

Qui, il pretesto per  le “democrazie evolute”  (quelle del dominio e imperialismo finanziario -non più economico,  l’economia è risposta programmata alle necessità-)  per  sobillare  “il terrore delle dissimiglianze”.

“Armando”  ragionamenti sulla uguaglianza sociale su cui, poi, fare  incombere  - nascosto,  ma minaccioso-  un merito graduato secondo opportunità produttive. Distolte le capacità inventive dall’arrecarne turbative.

“terrore delle dissimiglianze”  non assimilabile alla ambizione, lievito, verso evoluzioni della propria coscienza o della propria partecipazione alla solidarietà sociale. Né, tantomeno, sognante emulativo o sostitutivo della propria condizione secolare (di ciò scriveva Croce, se ricordo).

Piuttosto, fascino variante, moda,   verso un qualche giustificativo (di moralismo, di attese, di indolenza del sé) quale si è vissuto e si vive – in Italia, ad esempio -  tra il sud e il nord  e viceversa. O, tra l’industrialismo e l’arcaismo agricolo; tra lo stanzialismo e l’avventura; e viceversa.

E, con il “terrore delle dissimiglianze” l’uomo viene eviscerato della facoltà della memoria e  portato al  tumula dove, solo allora,  si ricompone, con  l’urlo della terra diversa, l’urlo del non essere simile.

 

 

 

cospirazione della democrazia del 2 agosto 2015  

 

 

Vincoli  segreti  siglati con rituali di sangue, carpiti tra simil-occhi  tufacei o trasportati e svelati tra corsetterie e guanti, o sussurrati, nel fondo delle brocche  delle taverne.

Un trascorso veritiero – vero –, all’apparenza pittoresco,  di congiure e di cospiratori;  tra aneliti alla giustizia e, finanche,  cupidigie  di ricchezze; nell’impasto delle  esasperazioni, nei  corsi umani.

Cattivi insegnanti – incauti sobillatori -  i pensatori  della minoranza; i filosofi e  gli artigiani che squadravano pietre e innalzavano anfiteatri, tombe, cattedrali e torri: “La maggioranza a profitto della minoranza”.

Le cospirazioni veleggiando, romanticamente,  su accordi interpersonali per sovvertire un regime, una situazione politica, rovinare un tiranno, si sono esaurite  il 24 luglio 1944 a Rastenburg.

Da quella data  è subentrata, al coinvolgimento teorico/utopico, la convenienza economica tra gli stati (e le loro lobbies) con  criteri di complottismo diplomatico  utili alla stasi dei rapporti internazionali ovvero a modificarli secondo progettazioni geopolitiche a medio termine. Si è  esautorato il volontarismo e lo spontaneismo individuale per  la interdisciplinarietà delle competenze necessarie alle attività di controllo, dissuasione e infrazione  di cui  solo una organizzazione complessa, quale uno stato,  può disporre e fruire.

D’altronde con la tecnologia (acquisibile, peraltro, anche da privati a modico prezzo e in anonimato) si può intercettare, analizzare, acquisire quindi sapere , valutare,  documentare ogni relazione interpersonale funzionale alla organizzazione di circostanze cospirative; a meno che non si voglia.

Gli stati diventano essi stessi cospiratori di una o più congiure mondialiste: accordi diplomatici e/o finanziari e/o interventi militari. E, negli stati che ne partecipano, giocoforza, le democrazie diventano cospiratrici; poiché devono mantenere la “stabilità” sociale e di governo  in utilità  ai patti complottisti internazionali.

La cospirazione della democrazia prevede il controllo e la sottomissione del popolo  attraverso il “colpo di stato” attuato usufruendo dei criteri formali della rappresentatività.

“Colpo di stato”,  supportato con la formazione di gruppi, censi e caste  che “devono” rispondere  solo alla legge.

Alla legge che gli stessi gruppi, groppuscoli, caste  ponderano, approvano, impongono. Laddove,  l’astrazione della potestà della legge, a funzionale  interpretazione,  esautora il popolo da ogni controllo, diretto ed immediato,  e/o verifica di dedizione e di capacità di operato.

Le funzioni di controllo democratico del territorio, quindi tutela, sicurezza, soccorso  del cittadino, vengono disperse nell’attività repressiva, esasperando la creazione di solchi di disagio e di intolleranza tra gli stessi cittadini, gli uni verso gli altri.

La burocrazia (con i criteri flessibili delle funzionalità procedurali) è gestita come pendolo degli interessi variabili dei gruppi, censi, caste: dalla sanità alla cultura, dalla giustizia al lavoro. Soprattutto, argine alle intemperanze della verità.

La “cospirazione della democrazia”  mira al perseguimento di tali presupposti.

Senza sangue. Senza colpi di fucile. Senza mezzi-armati per le strade.

Perché lo sterminio è delle coscienze. La coercizione è nella devastazione delle esistenze. Nell’obbligatorietà all’accattonaggio, Nell’abbandono alla pietà. Eventi che lasciano intravedere vomiti di sgomento. Isolati, discreti, pudichi. Non tracce rosse come indecenti segnali di disperazione, sulle barricate.

È un crimine la “cospirazione della democrazia”? E chi è il Giudice dello ius gentium?

La miseria dei cittadini altro non è se non  il crimine dei governi”  (Maximilien Robespierre - dal Discorso alla Convenzione,  10 maggio 1793)

 

 

 

l’impero dei fuochi fatui  del 15 agosto 2015

 

 

Per quella medicina post bellica - ancora velata di mistero, quasi magarica - si andava alla terme per la corrosione, o l’auspicata espulsione,  di calcoli renali. Non se ne poteva sottrarre mio padre, afflitto da coliche violente, stemperate, poi,  dalla forte diuresi provocata dalla cura delle acque.

A Fiuggi, la sera, terminato,  alfine, anche  il rito curativo pomeridiano, ci si abbandonava ai silenzi delle passeggiate sino al limite della pineta o per le stradine   su cui si affacciavano le pensioni anni ’30 (all’epoca piazza Spada era uno spazio deserto con allocato  un tendone dove si giocava “ai pacchi”: “se cedi il tuo, ne ricevi tre!”, “dammi i tuoi, hai la bicicletta!”).

Il più delle volte mio padre,  anche con la compagnia di un nuovo conoscente,   allungava il cammino verso  una stradina sterrata, poco illuminata  al cui lato si estendeva un piccolo campo in cui emergevano  brevi filari di croci discrete.

Un cimitero di guerra; tedesco, mi pare di ricordare.

Mi padre vi faceva sosta: era la meta.  Attendeva che all’improvviso, quasi a richiamo, dalla terra si levassero i fuochi fatui; così che fosse vera la leggenda che le anime dei morti  dessero il segno della loro ascesa al cielo.

Poi, possibile, certo,  che,  in qualche cimitero di guerra ignoto e ignorato, all’unisono, anche l’anima del padre si levasse amorevole nel suo andare.

Era la disperazione/rinuncia del non sapere.

Risalendo i crinali  della leggenda pietosa  fu, forse,  che, tra gli abbandoni/sepolcreti di soste  carvernicole  o tra putrescenze paludose, l’uomo stupì della evanescente fiammella blu che, d’improvviso, inattesa,  si librava come  cenno di consenso o  monito silente. E,  vedendone il principio dai sepolcri o dalle torbe,  l’ignoto/creativo della conoscenza identificò in essa la pulsione della vita che sfuggiva i defunti o le bestie o i fusti , ormai inerti.

L’anima blu si mostrava la notte; quando più forte era il silenzio, più forte l’attesa, più forte la paura. Non appariva il giorno; forse, nascostasi  nel blu del cielo.

Impossessarsi  della forza: l’uomo voleva la forza  per cacciare e non essere cacciato, nutrirsi, procreare; essere nel suo istinto.

Qualcuno, sembra, il più gracile o impotente, per avere pari nutrimento o non essere escluso dai congiungimenti, segnò il momento della possibilità di infusione della forza, della fiammella notturna, anche facendola  discendere dai cieli del sole.

Così, l’uomo conobbe e temè  la destinazione  alla morte e  il desiderio dell’eterno.

Furono l’oltre, i luoghi delle ombre, le praterie, il nuovo/diverso, il percorso; con essi, e tra essi,  i profeti, gli sciamani, le sibille, le prostitute sacre, i sacerdoti del tempio: le religioni. Tutte, ancora pulsioni sbalordite, disordinate di avversa o compiacente fortuna nel gioco delle occasioni.

Ma l’anima non poteva essere brada. La curiosità doveva essere disciplinata. irretita, condizionata, sfruttata.

Il monoteismo affasciò l’anima e la ammansì con l’acquiescenza e la giustificazione, la benevolenza e la condanna. La costrinse  tra l’empietà e il terrore

Gli uomini persero la loro funzione  angolare nella  geometria del cosmo.

Il bene e il male, la libertà e la fede, poi, la vita eterna e la grazia furono le ascisse carcerarie del convincimento delle masse alla appartenenza. Le astrazioni dottrinali  configurarono la  organizzazione gerarchica e ne vennero  a motivare e giustificare le contraddizioni;  sino a tollerare – alle origini della chiesa di Roma -  lo schiavismo pur di pervenire al riconoscimento di interlocutrice incontrastata dell’imperio laico. Così, sempre; con l’eliminazione di ogni opposizione -  o antagonismo - alterando, all’uopo,  o modificando i valori di grado delle ascisse.

Ieri,  tra terre, vescovati, contadi; oggi,  tra banche, onlus, imprese, (attuando la storicizzata  strategia che è  modello contemporaneo di pratica politica: il potere si accresce se viene motivato –dichiarato - come funzionale al benessere collettivo) la chiesa di Roma  sorveglia il suo impero dei fuochi fatui.

Discosta, con sufficienza ed arroganza, dai guasti di devianza che ha provocato alla sviluppo della coscienza umana, la chiesa di Roma opera il suo credo perché  “la religione e la morale sono opere della politica” ( La Mettrie - Opere, Discorso preliminare).   

Chi ricorderà l’impero dei fuochi fatui,  sull’orizzonte del  buco nero che ingloberà l’universo?

 

 

 

o ghigliottina o trincea  del 30 agosto 2015

 

 

La simbologia della dispersione del sangue o del nutrimento del sangue -  l’una come svuotamento della vitalità e dannazione,   l’altro come infusione di resurrezione dell’anima appassita -  istiga le  distinzioni che agitano i conflitti, le disperazioni, il terrore.

Per un verso o nell’altro. il sangue inonda e feconda la sterpaglia della esaltazione.

Ne sono discosto.

Ma, come umano vitale, da cittadino,  alzerei i palchi purificatori della ghigliottina. Con lucidità,  senza acredine, senza tornaconti, senza inorridirne  eliminerei la marmaglia, i profeti,  i giocolieri della buona fede, i persecutori, i massacratori della creatività e del lavoro, gli indolenti, i servili:  i desertificatori dell’umanità.

Salvificamente rendendoli, per mia misericordia,  franti atomi al ciclo di compostaggio  del cosmo.

Se io fossi un umano vitale. Ma, sono un sopravvissuto a me stesso. Non più uomo. Come tutti i sopravvissuti,  solo testimone, già vittima, della abietta violenza sociale; volutamente ignara che è anch’essa destinata al nulla. Senza rifugi trionfali.

Epperò, nell’inerzia della ghigliottina purificatrice si aggirano i boia e i carnefici assoldati dal nuovo feudalesimo. Loro, alzano palchi, dispongono ceppi, affilano le lame,  oliano la ruota. 

Non ci sono streghe, eretici, infedeli,  rivali di regno da decapitare, bruciare, crocefiggere. Ma,  perseguitati, diseredati, schiavi, reietti, affamati:  una quantità, un numero.

Un numero che fa disequilibrio. Che non fa mercato. Che oscilla tra la necessità e la pretesa. Che può rendere incerti, infruttuosi,  gli  accaparramenti – con essi, il primato e il comando -   non già più dei latifondi,  ma delle tecnologie e delle energie.

E, la ghigliottina  risplende. Schermo delle borse e degli indici economici. Falcidia le sue vittime senza ascoltarne un lamento che  possa ispirare un ravvedimento. I boia e carnefici,  i “ciarlatani eruditi” dei media, nuovi  imbellettati banditori,  annunciano spaventi di riti satanici o benèfici sortilegi. Inventano e sollecitano morali idonee e  luoghi di beatitudine. Perdonano e condannano.  Aizzano la folla. Perché la massa, o stordita, o incredula, o fiduciosa, si riversi nei luoghi predisposti a recinti di pratica della “confusione omicidiaria”:   il lavoro negato, l’abitazione contesa, la conoscenza impedita, le file della vergogna, l’usura sulla vita.

Lì,  la ghigliottina digitale la priverà di storia, di orientamenti,  di interessi. Anche dell’interesse alla sopravvivenza con il disperante epilogo verso la distruzione rabbiosa del proprio esistente.

Un genocidio “al naturale” di cui mancherà annotazione negli annales.

Se insufficiente, la “confusione omicidiaria”  avrà,  comunque,  ruolo preparatorio per le trincee. Trincee di una guerra  ragionata e gravata sui movimenti migratori.

Le antiche migrazioni/invasioni avevano  motivo nella primaria acquisizione di terre coltivabili - o già coltivate per manovalanza contadina esperta -  e procedevano alla penetrazione nel territorio con la spoliazione delle risorse alimentari e materiche ivi esistenti.

Le esigenze delle masse migratorie sono oggi orientate e modellate (non più spontanee, indotte) verso una prospettata occupazione in una generica attività di servizi secondari. In una provvisorietà di attesa nel processo di adattamento sociale e culturale ai nuovi territori ed alla condizioni istituzionali in cui questi sono organizzati e gestiti.

Territori che sono stati costretti al rallentamento del proprio sviluppo civile per evidenze di compressione delle attività economico/lavorative,  anche in soggettive condizioni di alta preparazione e specializzazione.

Le masse migranti, diffusamente,  non troveranno né riceveranno consenso nella   demografia tecnologica prossima futura;  restando, quindi, povere e emarginate. E,  se isolate e isolandosi nei contenuti religiosi o clanistici originari, conflittueranno tra esse. Trascinandosi e trascinate (o agitate) anche, da riflessi di condizioni politiche interne ai territori di provenienza,  ovvero esterne ai territori di accoglienza. Insorgendo, ancora,  una rivalità cruenta delle masse migrate verso le popolazioni stanziali; l’una vantando rivendicazioni verso l’altra.

Anche nella memoria riemergente dei sentimenti forti mossi, oggi,  dalle perdite umane:  uno, di  pietà e di solidarietà (di chi assiste),   l’altro, di disperazione e di rabbia (di chi è superstite all’avventura migratoria).

Emozioni che hanno, come lascito,:  una, la indulgenza, l’altra,  il risentimento. Entrambe inidonee alla efficienza dei rapporti sociali.

Allora, uno solo il destino: la guerra, la trincea.

Può, a tutto ciò  sottendere un progetto di dinamica geopolitica,  di prima fase,  nel contesto della insorgenda socialità  neofeudale tecnologica (il “tecnofeudo”): la deflagrazione e la dissoluzione dell’occidente europeo, l’arroccamento degli USA  nel continente americano (esautorata la conflittualità diplomatica con Cuba), la spartizione di influenza sull’Africa tra il Califfato (unità del clanismo arabo) e la Cina?

E la posizione epicentrica (quasi isolazionista) della Germania in seno all’Europa può trovare logiche  nella ricerca di sopravvivenza al  dissolvimento  dell’occidente europeo? E, nel vincolo della comune discendenza ariana, proiettarsi  a costituire un asse di mediazione russo-tedesco  per la spartizione delle influenze e la definizione  dei “tecnofeudi”?

Poiché tutto è mutevole,  il prossimo futuro  per la gloria di nuovi despoti,  “o ghigliottina o trincea”,  può  essere la sintesi visionaria di un vecchio pazzo, sopravvissuto.

Che qui teme. E,  forse a sproposito, ha in mente  “se il popolo non può trasmettere il diritto di sovranità, come potrà trasmettere i diritti sulla sua vita?”  (Saint Just -  Esprit de la révolution et de la Constitution de la France).

Ma, ripensando,  il “diritto di sovranità” non si trasmette quando si è indotti, orientati, obbligati  da chi può indurre, può orientare, può obbligare.

 

 

 

la legge e l’illusione del 13 settembre 2015  

 

 

In principio fu la “regola”.

La scelta derivata dalle esperienze, dalle emulazioni, dalle  similitudini.

La “regola” ha determinato i criteri nutrizionali, prima; le tecniche  di sopravvivenza, poi. Il fuoco e le sementi, le felci e il fango cotto .

Un evento/evenienza  vitalistico, psicologico  e esistenziale,  che condusse (ha condotto e conduce ancora) l’individuo a isolarsi o confondersi in una condivisione di utilità, pratiche o spirituali.

La “regola” si osserva in funzione delle specificità dei fini. Si apprende nel vissuto, nella osservazione dei comportamenti, nel successo o nella imperfezione dei comportamenti.

Dalla “regola” ci si esclude, non si è esclusi,  per abbandono  all’impotenza, alla inefficienza,  alla demolizione di sé.

Era il tempo in cui, tramandano le storie,  anche gli dei si compiacevano  nella ”regola”.

La “regola” della immortalità si consumava nell’intrigo/congiungimento  con gli umani; quando  gli dei alteravano/modificavano la loro natura, la provvista espansiva o implosiva del divino.

E, contaminati dai fugaci incontri,  gli uomini pretesero ad adottarne la regola. Modificando la propria e  escludendo chi ne proseguiva la pratica.

Fu la legge.

La legge: il modo imperativo e costrittivo del tentativo di espansione della specie.

Espansione, non sopravvivenza, giacchè il risultato da perfezionare non è nella quantità ma nella qualità.

In funzione della qualità, la legge non ha cura delle singole pulsioni e,  priva di stimoli o resistenze morali,  soddisfa la sola necessità di ridurre le esigenze a un livello minimo di soddisfazione. Genera – essendone  generata- il diritto, ovvero la  presunzione dogmatica di causale che incita al terrore verso il laico “mentre”, verso il religioso “dopo”. Poi, la manipolazione di sovrapposizioni tra il “mentre” e il “dopo”,   sdoppia,   unifica,  moltiplica, articola le argomentazioni della causale, declinando i vari diritti pubblici, penali, privati, internazionali.

Se l’abbandono della “regola” porta al sacrilegio, al tradimento (situazioni che implicitano una pregressa consistenza di valori esistenziali/morali),  la violazione della legge  persegue, da se stessa,  la propria sussistenza coartante; con la eliminazione, la umiliazione corporale, la esecrazione sociale (eventi significativi di un effetto di disfacimento della solidarietà sociale).

Il legaccio del fascio della legge (quindi, dei  diritti)  è il legaccio allentato ora del realismo sociologico, ora della pretesa naturalistica, ora del normativismo  metafisico, ora del divenire causale della norma -del diritto vivente-;   in una parola,  il ricettacolo degli abusi in cui la legge precipita per l’autentica  del suo motivo/fine originario.

Tra astrazioni e  interpretativismi  temporanei,  trovano ragione di esibizione e di declamazione gli apologeti: i motivatori e i religiosi della legge,  gli uni mistificando, gli altri manipolando. Entrambi  ignari di esserne strumento in un contesto di destinazione della specie che non possono gestire  e, perciò inconsapevoli,  sono  salvati dalle abiezioni, di valore e di giudizio,  cui, con pervicacia,  si dedicano per ottenere privilegi e scalate sociali di evidenza.

La legge è la più illusa delle illusioni umane. Ma sono  caduto, anch’io,  in un inutile,  astratto,  gioco di interpretazioni e definizioni apodittiche. Vacuità linguistiche. Epperò “dove non c'è legge non c'è ingiustizia”  (Thomas Hobbes, Leviatano”, I, 13)

 

 

 

psichiatria del  potere: tra  induzione suicidiaria e  volontà omicidiaria  del 27 settembre 2015

 

  

Eliminare i competitori!

Allucinazioni del sognante.  Deliri dell’esperienza profonda. Possedere l’unicità della capacità sessuale. Riproduttiva; poi, volgata nella casistica delle contrazioni eiettive o ricettive. In  fraseggi  con i feromoni, le situazioni sociali, la benevolenza di risorse, la elaborazione del bello, del brutto, del perfetto, dello storpio.

Eliminare! Eliminare! Eliminare i competitori.

Quando l’allucinazione del sognante deflagra, dalle  competizioni  infraindividuali,   tracima nella gestione del potere dove il sacrificante – che deve compiere il sacrificio di sé – è l’indistinto della massa. Lì alligna  il negatorio demoniaco della potenza: una, la salvezza che oscilla in rinvii di confini confusi,  tra  induzione suicidiaria e  volontà omicidiaria. 

Si preannuncia una nuova epoca di classi infrarazziali a genetiche controllate, private delle connotazioni esistenziali  di cui – e a cui - non interesseranno storie di uomini e di territori, bensì  l’assoldamento e l’inquadramento di esse in regimi economico-riproduttivi funzionali alle utilità di una élite edonistica,  plasmata per ereditarietà o arricchimento di qualità bioniche.

Prodomi ne serpeggiano tra le scartoffie di diritti e sui tavoli di giustizia, tra le grida delle borse e sugli atti parlamentari; prodomi per cremazioni, senza fiamme e fumi residui; quasi, innocenti.

Il combustibile di leggi, di ordinamenti, di preclusioni, viene lavorato da chi arranca a conquistare riconoscimenti di merito per essere accolto nella élite.  I deliri dell’esperienza profonda esondano. I segni/sogni della impotenza della rinuncia - della costrizione  alla impotenza e alla rinuncia - e lo scherno da sé verso sé  (tra l’irrefrenabile precipitazione verso un vuoto senza inferi e l’espansione oltre religiosa) si srotolano in orditi di famelicità; in trame di lucida violenza nella sedazione/rifugio della più imprevedibile lussuria o del tradimento  al dolore.

Eliminare! Eliminare! Eliminare i competitori. 

La morte è nella  sconfitta definitiva dei sensi,  ma è morte anche la privazione della quotidianità   dei sensi, la  persecuzione avverso la coscienza del sé e, poi,  lo scherno isolante dell’incompletezza, del vagare.

Eliminare, con  volontà omicidiaria. Si dispiega, allora, la  pretestuosa opportunità  di reggere le leggi degli stati e la normalità di diritti e di fedi  di ciascuno.  Diradando la marea fluttuante dei pretesti umani tra esplosioni, cannoneggiamenti, baionette. Chi non cade della propria carne è fatto boia o carnefice;  L’assassinato-assassino al soldo dell’eroismo.

Ancora,  virus senza urla  fuggono da laboratori. Ancora, polveri radioattive cercano respiri. Ancora, si inaridiscono i pozzi e si desertificano le terre.   Ancora, si predispongono filari di malati cronici, di diversamente abili, di diversi senza perché. Ancora, si compattano schiere di debitori della terza settimana.

Una ricerca vincolata al solo profitto, una industrializzazione senza progetti, una frenesia mineraria, una sanità privilegiata, una economia di “consumo ed educazione civica”  per licenziati, esodati, disoccupati, pensionati al minimo, sottopagati.

La legge condanna il “fatto di sangue”,  ma “non ha causa-effetto” la insorgenza di una malattia tumorale derivata da depauperamento da stress  delle difese immunitarie, o l’evenienza di un danno ischemico, cardiaco o cerebrale, conseguente a esagitazione emotiva per eventi traumatici (perdita del posto di lavoro, sfratto, insolvenza, denegata giustizia). Circostanze il cui esito è sempre “addebitabile” alla fragilità comportamentale di chi  viene a soffrirne, mai alla organizzazione istituzionale, alla gestione della giustizia, agli accaparramenti delle lobbies.

Eliminare, con la quieta induzione al suicidio. Riguardosa delle leggi, ossequiosa del bene “morale”, regolatrice del giusto comportamento sociale.

La allucinazione  segreta e gelosa  del potere - di governanti, politici, funzionari, dirigenti,  di tutti i timorati dell’ordine -  ne  concorre con legislazione, dinieghi, abbandoni, piccoli rifiuti: una persecuzione di ammonimenti, silenzi, devianze, connessioni.

La soggettiva disperazione per elisione di dignità è la dannazione sensoriale,  diffusa in un  niente solidale verso il sé futuro: quindi, il suicidio.

Forse si agiterà una esaltazione finale di effimera, fragile vendetta: sottrarre ai persecutori   l’oggetto di dileggio. Ma sarà, per essi, solo un sorriso ad un trafiletto di  cronaca morbosa.

Eliminare! Eliminare! Eliminare i competitori. 

 

 

l’inganno dell’eros  del   10 ottobre 2015

 

 

Sono nelle ombre inquisitorie. Sono nel respiro dei ventri squarciati delle madri. Sono nel silenzio agghiacciato dei violentati.  Sono nella più profonda lacerazione delle carni martoriate.

Sono nell’inganno dell’eros.

Sono nell’equivoco dell’occidente religioso. Potrei essere altrove. Ma qui è esemplare la confluenza dello spirito della vita nel Cristo narratore. Nel Cristo crocefisso. Redento, così che   la resurrezione prossima  ne annuncerà  la continuità:  l’eros come potere di vivificazione dell’eterno.

Nessuna icona totemica o immaginifico deistico o sciamanico  ha assimilato e irradiato eros più del Cristo crocefisso. Il dolore,  espiante e meritevole,  ha composto crogiuoli di beatitudine senza confini tra sensorialità e  sensualità,  tra  desiderando e  concupito,  tra  rivelazione e  negazione.

Una sollecitazione  che agita un ripiegamento delle consapevolezze,  che travolge la carnalità e, travolgendola,  la conduce  nell’ambizione all’eros.

L’inconscio ne aspira. Come liberazione  dalla crocefissione del sé. Senza redenzione e  resurrezione la forma dell’amare è la solitudine assoluta. Sottratta alla adorazione per il peccato. Estirpata la negligenza del perdono.

Privata di dinieghi la condanna.

Così l’inconscio  plasma, modella,  a suo beneficio,  cristi sulla croce.

Le donne trucidate sono epiloghi della carnalità ossessionante. le membra martoriate sono le illuminazioni contemplative della purificazione. I violentati sono l’impunità adolescenziale dei giochi.

Le cataste dei morti nelle  battaglie, in ogni luogo; le vessazioni delle carceri e dei confessionali; le toghe macchiate di inflessibilità corrosa sono i filari delle ascese all’apocalisse discriminante. È l’istante sublime e catartico dell’adorazione. La vitalità del contiguo tra sensorialità e sensualità.

Si referenzia l‘anomalia  della pulsione alla distruzione insinuandola, pezzo dopo pezzo, nella struttura corporea, lignea, del Cristo crocefisso: il capo reclino è la sottomissione alla pulsione, le braccia aperte sono l’ottenimento della pulsione, le cosce leggermente  dischiuse  sono il segreto da disvelare del mistero della  pulsione.

L’Io si autoreferenzia. Esonda. Si espande nel possesso, essendone posseduto, incarnato,   del dio morente prostrato, al dovere di resurrezione,  dai desideri incompleti e incompiuti. È il dio dell’eros immaginifico che non ha risorse di infinito bensì è, esiste, per  condanne di solitudine.

Lui ucciderà, umilierà per eviscerare tra le piaghe  delle inflizioni  l’amore profano, il ripiego alla inconsapevolezza dell’eros.

Poi ripiegherà  la sua violenza nella umiltà di passi cortesi tra giaculatorie, baciamani,  comprensioni,

eloqui di giustizia. La pulsione si richiuderà nell’icona del Cristo. E la umanità sarà salva.

Sono note di un giorno di poggia.

Eroi hanno ucciso. Uomini  hanno violentato. Giudici si sono corrotti. Molti corpi e molti respiri giacciono tra ricordi fugaci.

Sono note di un giorno di pioggia.

Come il vecchio, che un tempo mi fu amico,: “ potrò scoprire che l’anima umana è più grande di tutte le sue colpe, di tutti i suoi peccati?” (Vincenzo Dattilo – monografia su franchini – 1971)

 

 

 

passione e servizio o arroganza e privilegio del 25 ottobre 2015

 

 

Sono un vecchio pazzo. O, forse, meglio, un pazzo stanco. Perché anche la pazzia (quella sublime, s’intenda!) viene violata nella sua propria tollerante pazienza.

Sì! Sono assediato, sommerso, sfrangiato, dilaniato da rimbombi, assordamenti,  di immolazioni senza sangue, di martirii senza fustigazioni, senza carboni ardenti, senza oli fumiganti.

Sono costretto a dileggiare da me medesimo la mia pochezza di genio – eccelso, unico, incommensurabile, immacolato -  perché la mia vita è deserta  di passione e di anelito al servizio.

Mi struggo. Nella mia rivelata inefficienza, inutilità. Come ravvedermi e poi, forse, adagiarmi in un clamore consolante di sottomessa penitenza?

Andrò ad un pulpito medioevale,   quando la predica veemente castigava sul peccato carnale;  mentre il clero lucrava sui bordelli?

Passione e servizio. La più empia delle mistificazioni dell’occidente religioso e cattolico apostolico romano si è  insinuata e espansa nella cialtroneria politica dell’oggi.

In un volteggio acrobatico dove si esibiscono, comprimari,  giudici, critici, filosofi, opinionisti e, finanche, i “qualunque” e i “probabili”.

Le azioni non hanno compimento - e riscontri - in esternazioni su adempimenti comportamentali o su progetti morali; poi,  variabili per interpretazioni semantiche addossate a  opportunità  di aggregazione e proselitismo. Queste appartengono all’apoteosi della consacrazione  ascetica.

Nella pratica della  politica la vantata ostentazione dell’essere illuminati dalla predestinazione alla passione e al  servizio ha olezzi  untorei di una viralità di  mistici. Viralità mortifera per i “pastori erranti”  tra le insalubri necessità del vivere quotidiano o tra i  gusti  verso la comunità sociale nella sua espansione condivisa,  esplorativa e  creativa .

Viene, peraltro,  da riflettere  che la passione,  come coacervo di pulsioni emotive -quindi, con moderna interpretazione delle alterazioni piscologiche - si addice alla esaltante pratica di devianze comportamentali;  alle  quale ci si applica devotamente con un compiacente  “servizio”  agli scompigli dell’es.

E tra gli scompigli si consolidano come attitudini l’arroganza e il privilegio. Attitudini di abietto profilo. Stimoli alle efferatezze. Senza separazioni o distinzioni. Senza connotazioni e specificità di fedi o convinzioni ideologiche  o scientifiche o censi  sociali. L’arroganza e il privilegio sono nella santità come  nella  blasfemia,  nel giudice come nel condannato.  

E vengo a chiedermi se l’arroganza e il privilegio non si annidino in agguato tra declamatorie moralistiche bilanciate tra il voler essere delle commozioni e il dover essere delle identificazioni; tra la passione e il servizio.

Il vecchio pazzo teme e diffida dei giudici che hanno passione per la giustizia e anelito al servizio dello stato; teme e diffida dei santi che hanno passione per il martirio e anelito al servizio della fede; teme e diffida dei difensori che hanno passione per la verità e anelito al servizio della causa; teme e diffida dei politici che hanno passione per la repubblica  e anelito al servizio dei cittadini.

Io temo e diffido degli esseri umani che non hanno curiosità e pietà di se stessi.

Da vecchio pazzo, stanco, forse, eccedo; forse sbaglio. Ho dubbi su di me; ma “ Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola. Solo gli imbecilli son sicuri di ciò che dicono.” (Voltaire)

 

 

 

tra apologia e apoteosi del pene  del 15 novembre 2015

 

 

Difendere o esaltare? Compiacimento o divinizzazione? Apologia o apoteosi? Divinizzando è lecito argomentare tra l’ironia e il turbamento verso l’ascesi o il distacco dal mondo sensoriale?

Ho impiegato oltre 40 anni ad abbandonare la mia coltura (si badi: coltura, perché ho imparato a desertificare le ipotesi). Sono sconsolatamente  brado e,  anche,   spregevolmente formale  per le ipocrite cortesie degli umani, a me  presunti simili. E polemizzo, ormai, a minuti,  con la disfunzione erettile – dono dell’alchimia per il mio cuore - che si professa vigilante carceriera dei miei istinti “poetici”.

Alla fine. sono al bando. Non troverò più rossori di speranzose libidini all’omaggio “Il mio cuore e il mio cazzo vi fanno i più teneri complimenti.” (Voltaire)

Ho consolazione nelle vicissitudini del pene di Tutankhamon che l’archeologa Sarima Ikram riscontrò  divelto dal suo corpo, per quell’attenzione che solo le femmine dedicano alla minuzia dei particolari. Nel caso, più ancora,  al pene,  stupefacentemente  eretto,  in una mummia. Dopo trent’anni di negligente cura maschile al sarcofago. Con il rigore della curiosità indagatoria della studiosa. Per  trovare motivo di fusione/infusione del pene eretto con la illusione del divino riversata in  Osiride. Per raccontare/testimoniare l’evento della morte in congiunzione con il ciclo della vita. In una perennità di staticità  che sfugge al pene virile, gestuale o metaforico,  quando si protende nella vagina.

Potrebbe essere –ma si ignora- che il predatore  abbia destinato il pene divelto  a  farne derivare una  unità di misura, di confronto. O,  a elargire una offerta/strumento di lussuria per congiungimenti esoterici. O,  a macerazioni in alambicchi per distillare l’essenza della eccelsa  erezione inflettibile.

Di certo la mummificazione del pene eretto, nel riflesso di Osiride, dichiarava la sua turgidità nel fine di penetrare la terra - la grande madre terra – dei  primordiali riti di fertilità.  Consegnando, alla necessità di braccia da lavoro, la fecondità.

Così vennero ad  affermarsi le generazioni e, con le generazioni,  le predominanze e il potere.  E, con il potere,  il pene eretto si dedicò alla cura, alla esposizione,  della sua turgidità. Quindi,  nel pervenuto equilibrio demografico con il femminile,  alle competizioni di selezione.

Disaccorto, però, che,  nel mentre degli scontri di dominanza,  la femmina apprendeva a furtivamente  destinarsi ad altri, anche momentaneamente; come quando i cervi incrociano le corna.  

Esaltando un immaginario furioso il pene eretto empì, strabocchevole,  sacche  di braghe. 

Un delirio di turgidità trasportato,  quasi impettito, tra parate e colpi di mitraglia, tra sventoli di bandiere sulle barricate e volti di donne sfigurati, tra scanni parlamentari e colpi di morte a tradimento, tra sentenze di giudici corrotti e sermoni di pedofili in agguato, tra barriere di fili spinati e sussulti di pietre all’intifada. Finanche, tra le note del silenzio.

Ma, lettore di queste brevi note, sii sereno.  Il pene è come  un fibroma pendulo. Cade, se ne strozzi le arteriole.   Le femmine, le donne,  ne provvederanno.

Da vecchio pazzo rifletto: il pene eretto non ha mai conosciuto il corpo delle donne. Mai, la sua vagina. Mai la consapevolezza del piacere o, ancor più il segreto del piacere. Delle donne sono i misteri eleusini  dei ginecei. Delle donne è  il volere e il potere dell’amore sussurrato o ingannato. Del mito. Della motivazione del mito.

Miei presunti simili, cosa resta quando il pene perde di vigore?

 

 

 

nato da un cavolo  del 29 novembre 2015

 

 

Mi si disse: “Sei  nato da un cavolo”. Di quelli dal torso turgido indispettito dalla armoniosa  geometria dei fiori che sorregge. Con una sola nascita. Una sola. 

Nella possibilità di scelta avrei  preferito essere generato da un loto. Ri-generato e benedetto e invocato ogni giorno. Io,  Nefertem, il creatore, il dio sole, fonte di ogni vita.

L’assillo della senilità  si condensa in desideri irrealizzati o irrealizzabili o nelle astrazioni senza più confronto. Pacatamente offerte allo scherno agitato di chi agita la presunzione della vita.

Vagando tra l’insorgere di meditazioni  sulla mia nascita  vengo a  leggere (con riferimento alla cultura occidentale religiosa) la Bibbia che,  nella  Genesi (1: 11/12),    anticipa la presenza del mondo vegetale non solo all’uomo ma, finanche,  alla “luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte” (ibidem, 1:16).

Sospirando teorie sulla formazione del nostro satellite - dove si ipotizza che la luna si sia formata/composta dall’agglomerato dei residui di uno scontro cosmico devastante, tra la terra e un asteroide - potrei supporre  la presenza del mondo vegetale, avanti tale catastrofe e, poi,  la sopravvivenza ad essa?

E mi insorge una ulteriore indagine sulla vita vegetale:  è l’ unica condizione vitale autosufficiente, in ogni condizione.

Invero,  le decomposizioni di ogni genere di sostanza organica – quindi,  anche di quelle vegetali - si riversano nella terra e nelle acque e l’assorbimento delle sostanza minerali e molecolari sorreggono il ciclo  nutrizionale delle piante.

Il mondo animale – noi - ne è impedito. Necessita di alimentarsi con  sostanze organizzate. Alla mancanza di queste sopravverrebbe la imposibilità  a cibarsi di alcunchè se non della propria specie.

Potrei agitare l’assunto che siamo noi esseri viventi, animali e umani, il cibo destinato alla proliferazione del mondo vegetale?

Siamo noi il brado allevamento nutrizionale? Sono le piante il vertice della catena alimentare?

Ancora, le piante possono far sopravvivere la loro specie con un seme, comunque sgravato sulla terra. Diversamente, noi necessitiamo di sperma ed ovuli deperibili in un tempo breve. Né la tecnologia e la biogenetica potrebbero assegnare indici di perpetuazione nella evenienza di un cataclisma planetario. Da se stesse, nella trasformazione/produzione di ossigeno,  le piante potrebbero  annullare gli effetti di ogni calamità, di ogni devastazione.

Così opinando,  il ciclo della vita terrestre, l’occupazione dello spazio-vita terrestre,  il significato della vita terrestre, il destino della vita terrestre  non potrebbe intendersi se non rovescio.

Saremmo noi gli invasori della terra;  ospitati, benevolmente ma fruttuosamente,   dagli autentici possessori titolati  del pianeta: le piante.

O licheni,  o mangrovie,  o querce: il loro possesso del territorio è ovunque.

Ovunque le radici si insinuano e distruggono gli ostacoli naturali e artificiali; con un tempo di avanzamento per noi umani impercettibile perchè non selezionato e contato con i tempi scanditi dalla nostra vita.

Nel corso di nostri mille anni,  il mondo vegetale raderebbe al suolo ogni testimonianza della presenza umana; il trascorso creativo e produttivo  di 40 generazioni umane, perseguito in 10.000 anni.

La longevità degli alberi si conta in  3.000/4.000 anni (finanche,  13.000); mi chiedo, allora,  se i miti  quando cantano  Matusalemme, narrino  del  figlio di Enoch o del pino della California, ovvero del castagno dei cento cavalli di Catania.

So che le piante comunicano tra esse. Con reti sotterranee o con vibrazioni delle foglie. So che percepiamo le modulazioni delle influenze che emanano;  ma siamo troppo esosi nei nostri modelli ambigui di società per essere dediti  alle convenienze che devono gli ospiti.

Credo che abbiano insinuato nelle nostre menti il fuoco, il suono, l’architrave, le colonne, la geometria,  la bellezza. Oggi,  le connessioni informatiche.

Penso: tra breve nelle baite brucerà il ceppo di natale.

È il busto di Nimrod che brucia. Nimrod redivivo nei sempreverdi e nuovamente ucciso dalla cupidigia erosiva e corruttore  delle comunità umane.

Vorrei saper  parlare con un albero e chiedere delle sue storie, delle origini e delle presenze,e, poi , delle deboleze, delle stanchezze, delle memorie umane raccolte sulle cortecce. E a quale pianta sarebbe più opportuno debba io destinarmi come  cibo.

Opportuno sarebbe un fior di loto;  perché potrei chiedere  di esserne frutto.  Sancendo la mia essenza divina. Ri-nascendo da un loto e non da un cavolo.

 

 

 

tutto è puro per gli impuri  del 20 dicembre 2015

 

  

Le mi sono posto innanzi. Ignudo, le braccia levate in segno di accoglienza benedicente e ho chiesto: ”Sono un santo?”. Ho ricevuto la maldicente, ironica, risposta: “Sei un angelo ... demoniaco.“.

Qui, fu frustrata la mia ambizione a inserirmi -contrastare – tra  le ricorrenze di  Umberto martire e Umberto vescovo.

In verità esploravo quel “tutto è puro per i puri” di san Paolo (lettera a Tito 1,5) che, nella sua  sconvolgente  sinteticità,  si è offerta (si offre tutt’ora) alle più varie divagazioni interpretative  e adattamenti logici, dottrinari, teologici ma, soprattutto, ha  subbugliato il criterio valutativo della morale sociale e istituzionale; per essere  conduzione sottotraccia al laicismo dello stato e dei comportamenti infra-individuali.

Invero la  turbativa, su cui si sospinsero e avventurarono  i movimenti  “eretici” dell’inizio del II millennio,  fu la scissione tra intelletto e fede.

L’intelletto dono di Dio, quindi commisurato al bene assoluto,  non poteva essere istigatore o artefice del male: calato nella purezza non poteva determinare azioni inique sul piano dei comportamenti morali e/o sociali.

Pure apparendo ciò banale alla luce del nostro percorso moderno,  indusse a una serie di comportamenti individuali e comunitari di “fede ascetica” (sovversiva) che andarono a intaccare, scardinare,  il potere ecclesiale fondato sull’obbedienza all’unica sapienza discussa: quella delle scritture e dei dogmi curiali; conseguentemente alla organizzazione gerarchica ed ai simbolismi e ritualità della chiesa cattolica.

Il villico  Leutardo, per il suo  elaborato  ascetismo,   abbandonò la moglie e distrusse un crocefisso donandosi alla contemplazione del divino.

Tale individualismo ribelle, nella sua spudoratezza estrema,  veniva a suscitare  uno stimolo alla sconfessione dell’unità del chiesa talchè il vescovo Ceboino tanto lo perseguitò da indurlo al suicidio: la devastazione teologica non poteva consentirsi confini di devianze.

I “fratelli del libero spirito” (movimento che,  sulla ricerca di una spiritualità elargitrice di  salvezza per la presunta fine del mondo,  elaborava il distacco dai precetti della pratica religiosa ortodossa così che gli adepti  giunsero, anche,  a praticare  azioni  peccaminose, in quanto “investiti”  dallo spirito santo) vennero a rappresentare una forza di autonomia di valori che - seppure agitata nell’ambito delle scritture e delle lettere apostoliche -  si pose a travolgimento e  primo impulso ad una frantumazione ideologica/teologica, sulla base di una affermazione – protestata, non ancora consapevole -  della responsabilità individuale.

Non altrimenti,  da questi presupposti,  da un lato la morale scardinò i suoi peccati sensoriali, dall’altra fomentò esperienze quali il beghinaggio; beghinaggio  che, per alcuni versi ebbe – ha -  connotazioni e sapori di premonizione della ricerca di liberazione del mondo femminile e, finanche di una società comunista.

Ma, non ci si può sottrarre da una definizione, da una opinione,  su cosa sia la purezza.

Margherita Porete, nello  “Lo Specchio delle anime semplici annientate” – scritto a causa del quale “meritò” il rogo –  espose: “Che dolce trasformazione venir mutata in ciò ch'io amo più di me. Sono a tal punto trasformata da aver perduto il nome mio per amare, io che so amare tanto poco; è in Amore che sono trasformata, perché io altro non amo che l'Amore.”.

Ambiva la partecipazione di Dio, nella sua essenzialità, in una trasformazione del ritorno alla libertà originaria.

Ritornare. Dopo essere andati.

Oggi, nella cosmologia cui ci induce la astrofisica e la meccanica quantistica (e per quello che verrà, già avendo consapevolezza di questo “venire”)  è dato astrarsi dalla condizione del vivente. Da questa condizione,  percepire la motilità del vissuto. Da questa percezione,  modulare le pulsioni del vivo.

Da ciò la purezza è la congiunzione tra l’impossibile (curiosità) e  l’imprevedibile (agire).

Vi è però una riflessione,  cui sono onerato da “vecchio pazzo”.

La comparazione (similitudine) tra le pulsioni di pensiero degli inizi del II millennio con quelle del nostro III  millennio.

Credo vi sia simiglianza di eventi a fine millenaristico,   inintellegibili alla contemporaneità: l’agitazione di grandi masse tra propositi e ribellismi – non adeguatamente definiti e individuati, non consapevolmente rivoluzionari  – che vengono a sollecitare  rotture verso le stratificazioni sociali  sedimentatesi.

E potrebbe essere che il dogma del potere - di per sé “impuro” -  sia  professato da “ impuri”. E che,  la morale sia l’accaparramento. E che, parafrasando san Paolo,  si possa affermare “tutto è puro per gli impuri”?

Ma nell’evolversi della tecnologia,  allorquando le macchine si proporranno – saranno proposte - come  robotizzazione dell’umano,  prive di curiosità e di agire, dove si comporrà la purezza? Chi i “puri”?

E se ancora le macchine, in divenire,  assumessero,  a  intimizzazione vitalistica,  una soggettiva  indipendenza di curiosità e di agire,  sancendo comportamenti e decretando modi di ossservanza,  quale il pensiero di dirompente opposizione? Quali  i precursori?

Da “vecchio pazzo” mi sarà consentito definire  “puri”, oggi come domani,  soltanto i disobbedienti coltivatori di farfalle? 

Con un monito che mi viene da Calvino:  “La disobbedienza acquista un senso solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui si ribella.” (Il barone rampante)

 

 

 

 l’amore trascendenziale e l’altre stelle  del 3 gennaio 2016

 

 

Ho messo in riposo le stagioni della intemperanza. Ne ho collezionato qualche inutile  perché, qualche vizioso turbamento, qualche impietosa rinuncia.

Sono riposte in scatole di bois de rose offerte alla  guardia  di ragni instancabili. Reliquiari di un abbandono alla  inettitudine.

Ma, tra i segreti delle tasche stipo, sempre,  un astuccio di cartone. Di sigari che  levano anelli fumanti  come spirali di incognite che trasportano inchieste sul cielo, sull’amore, sulla morte. E quelle piccole,   indispettite,  risposte dal sapore di favole per vecchi;    come,  per i fanciulli,  il risveglio  della principessa al bacio del  principe.

Così,  pendulo il fumo tra le labbra,  mi  racconto il farsi  della simulazione,  simulando la mia stessa esistenza in un inseguimento di immagini riflesse dove rimbalza  la compattezza e lo sgretolamento del  tangibile e del visibile; componendo e integrando una equazione.

Si! Posseggo l’infinito e l’eterno che pure  mi possiedono e mi modificano e si alimentano  delle  emozioni che essi stessi generano in me.

Racchiudo  e concludo in me  il ciclo binario della perennità e della conservazione mutante.

Il dio che si fa carne. La trascendenzialità della morte, della poesia,  dell’amore. Ripostiglio della materia ignorata da cui attingere i paradigmi della simulazione.

Nel mentre mi confesso: amo con veemenza  due donne.

L’una,  della sensualità sensoriale del conforto tradito; l’altra  della sensualità adulatrice dei distacchi rimpianti.

Quasi gemelle; così simili nei tratti dominanti  e  nella altera inquietudine degli occhi. O  successioni di riepiloghi l’una dell’altra.

Mai vidi volti più belli e anime più radiose nel martirio della solitudine e dell’inconfessabile  ostentazione dell’ansia verso  una incredibile  purezza. Il vizio-gioco dove si annida  si compie ogni crudeltà di poesia o trasfigurazione dell’inganno: la passione del poeta, la  incognita variabile  nel mondo simulato.  

E,  se in questo infinito simulato la morte si svolgesse come  deflagrazione dell’anima in particelle di materia e di antimateria, anch’esse simulate, che si disperdono per il cosmo?  E,  se vagando si congiungessero  a particelle opposte, anch’esse generazioni  della morte? E se dallo sprigionamento di  energia si addensasse pulviscolo e poi soli e mondi e anime  rimodellando il cosmo? Potrei, potreste, chiamare tutto ciò  amore?

Ne sussurro i nomi: Bernardette, Jeanne.

Il sigaro si è consumato. Il fumo si disperde. Bagliori lontani dicono di nuove stelle. Gli uomini continuano a simulare la morte. O. A morire.

 

 

 

discorso delle felicità del  17 gennaio 2016

 

 

Mio padre mi suggeriva, pure sapendola  contrario alla mia indole curiosa, la carriera ecclesiastica. Andandomi a prospettare   una vita da scazzetta rossa. Tranquilla, quieta, onorata, incidente; finanche lussuriosa, alessandrina. Era il gioco/disprezzo per le virtù negate.

Ancora oggi – certo,  per suo ricordo - le mie visioni  sul “sarebbe stato”, al terzo sonno e stanco,  mi portano a “Umberto il Papa”,  viaggiatore  quotidiano, scalzo,  ignudo tra gli umili, scalzi e ignudi;  tra pause di occhieggiamenti di donne vogliose.

Ai miei quarant’anni mio padre mi abbandonò ed io, vagando solitario e doloroso, ribelle inconcluso, incontrai Zarathustra. Il predecessore e il postumo della mia inquietudine, della mia rivelazione. L’altro di me, fuori di me.

Il profeta che si nutriva, che orinava, che defecava, che  concupiva, che eiettava; a cui si poteva eviscerare il cuore e sezionare il cervello. Il profeta dai sensi dolenti non trasfigurato nell’apatia dell’angelico. Io, ero profeta.

Mi portò alla sua vetta e, poi me,  ne scacciò;  perché le vette si violano una volta soltanto  e da uno solo, per tutti.

Mi portai nell’oscuro, nell’inviolato, nell’oltre.  Ondeggiando, sospeso, trascinato.

Le gravità mi avvicinavano e mi allontanavano. Forse, per trent’anni; ma il tempo è il  modo del percorso e qui giaceva  la profezia.

Mi tolsi e parlai alla  nube  che  sopraffaceva i mondi pronta a condensare  poltiglia di umani,  per catalizzare le duplicazioni dell’infinito.

Parlai:

felici  i figli che rinnegano i padri, perché integra è la loro arroganza;

felici  i traditori,  perché vantano la virtù del giudizio;

felici i predicatori  di fede,  perché hanno compratori di ogni nequizia;

felici i massacratori della verità, perché smerceranno misericordia;

felici coloro che stuprano, perché imparano a sgozzare il gallo all’alba;

felici coloro che non odono, perché loro è il canto dei cardellini che accecano;

felici coloro che temono la morte, perchè i loro occhi arderanno le giganti azzurre;

felici coloro che uccidono, perché avranno un dio compiacente e pietoso.

Segnai un punto oltre il basso e oltre l’alto e dissi:

a non altre felicità aspira l’ignominia; secondata dalla morale che ha le proprie destinazioni sempre altrove;

invero alcun punto dell’universo ospita conflitti che non siano tra essi compatibili al modo in cui si determina l’unità del  caos;

la poltiglia umana - slegata e incoerente in se stessa,  per la molteplicità degli elementi che le danno massa -  sfugge le modulazioni  del caos e,  per ritenersene sostitutiva,  modella regole di staticità: ora, religione;  ora, morale;  ora,  società;  ora, diritto;

nulla è oltre il pensabile e il percepibile è esso stesso pensato;

nessuna causa è divina,  come nessun motivo è umano.

Non conoscete le scorribande delle vostre pulsioni nei cieli e non sapete se l’irrequietezza della vita  sarà la coesione  e lo scivolo dei mondi.

Non vi è dato sapere, né saprete, se l’universo sia specchio e dissolvenza delle anime pie o tumultuoso miscuglio dei gravitoni che  abbandonano la poltiglia.

Così parlai, così dissi alle particelle della nube.

E venni ancora una volta a voi. Preparato all’ingiuria ed alla condanna di blasfemia. Pure, rinvenendo, sussurravo tra me e me: “ Contessa, che è mai la vita? / È l’ombra d’un sogno fuggente. / La favola breve è finita, / Il vero immortale è l’amor.” (Giosuè  Carducci - “Joufré Roudel” ).    

 

 

 

il mondo futuro del 7 febbraio 2016

 

 

Ai miei vent’anni, nei rimbombi di una ingenua,  incontrollata  e ignota volontà di potenza,  vagavo notturno a raccogliere predestinazioni o vaticini. Un rito per il quale mi affidavo a sibille  improvvise.  Prostitute errabonde scacciate dai templi della lascivia.

Così, versando l’obolo – vieppiù rassicurando sull’inusitata richiesta che suonava offesa per la rinuncia alla loro carne – mi portavo a conversare sui temi più vari.

Supponevo – oggi, credo non potrei supporre – che le prostitute assorbissero l’interezza della connotazione umana nel momento che essa si manifestava nella più intima condizione,  senza indulgenze o mistificazioni. Ritenevo che esse ne potessero essere  narratrici, seppure inconsapevoli.

Ad un tempo vestali , pizie e prostitute sacre: la miscela del femminino dominante sfiorato, ma non corroso,  dalla fuga maschile verso la ignominia, la distruzione.

Di alcune ricordo, ora, il nome: Titina, Rosalia, Maria, Nunzia, Pasqualina; e, riemergono le loro storie.

Maria, dalla parlata cadenzata per una narrazione, ripetitiva e ossessiva,  nel vanto di essere, la sua vita,  trama per un racconto di un celebrato  scrittore:  “ la donna piangeva mentre giaceva in terra ... venne un uomo ... la sollevò e disse – ti porto con me, Maria!- ... questo è il mio nome : Maria! ... questa è la mia storia! “.

Nunzia, che si vestiva di  discendenza  da un genio; sempre in  strada,  anche la vigilia di Natale; vantandosene - avidamente  e imprecando - raccontava di ricchezze che non conosceva;  svelate, soltanto,  in  un futuro possesso  dell’eredità.

Titina, che mi si dedicava al colloquio amicale alle tre del mattino, al termine del “lavoro”,   e che una volta mi disse: “ domani vado al bagno “...” con i bambini... vienimi a prendere così faccio vedere una famiglia”.

Ma, di tutte,  al nome di Pasqualina è legato il mio vagabondare nella curiosità del conoscere. L’incontro fu su una panchina del lungomare,  nel pomeriggio. Alle spalle,  un piccolo luna park che non aveva  raccolto  clienti.

Da un “sei solo?” che mi rivolse, fui coinvolto  nel racconto della sua vita di miseria. Era di un paese della provincia e per venire a prostituirsi a Napoli aveva lasciato  i due figli, di tenera età, abbandonati,  in casa.

Inorgoglito dall’occasione - di  potermi riconoscere nel principe sul bianco cavallo del sogno della principessa dormiente - la convinsi al ritorno alla sua casa.

L’accompagnai alla Circumvesuviana. Ho impresso il momento del saluto. Lei piangeva, agitando  un fazzoletto bianco.

Per caso,  alcun giorni dopo,  lessi su un giornale il suo nome legato alla notizia su  una prostituta che aveva accoltellato una donna; per difendere il suo amante.

Oggi, con animo  compassionevole verso lei e la sua vita a me ignota – anche,   verso la mia gioventù romanzesca - mi chiedo se per caso, in quell’incontro,  non avessi, ignaro, partecipato a riprese di un film di Pasolini:  sarebbe stata, questa,   grande artisticità  della vita inconsapevole.

Cenni di improvvisati apprendimenti della coscienza del femminino. Dopo cinquant’anni,  condensa per la mia tragedia “marguerite”.

Da quel discorrere appresi l’arte del sedurre e che l’unica seduzione può essere portata verso chi per sacralità, per possibilità, per destino  ha risonanze, rinvii,  di emozioni, di poesia, di inganno.

Appresi, nel sedurre, che il maschile vive le realtà visionarie degli abissi o la sconfitta del sangue. Non sa - o non può -  scivolare sulle acque, generare l’abbandono.

Fui libertino immalinconito nei rammarichi. Non conobbi Don Giovanni.

Seducendo, affiorava lenta,  ma perentoria,  la  consapevolezza che tutte le seduzioni conducano a dissimulare le genesi del vero/falso della unità perduta.

Così, il divino, l’angelico e il demoniaco, l’umano androgino, sorgono dalle lontananze del mito; e  la fantasia  contempla, racchiude in se,  tutte le verità possibili.

Si narra, nei vari libri e linguaggi, che il maschile fosse separato dal femminile.

Il seme possibile separato  dall’ovulo certo. Perché, forse,  al principiare della storia umana, la prosecuzione delle generazioni  fosse tutelata   nelle condizioni dell’insicuro e del provvisorio  dell’essere prede.

Recuperando, nel tempo, la esigenza della ri-svelazione delle complementarietà del femminile e del maschile,  per ri-apprendere, ri-componendo, la totalità, l’unico, dell’androginia negata.

Ma,  il perdersi tra le regioni del “fu” - più che l’erudizione del noto/ignoto -  istiga il ripiegamento ad osservazioni sull’oggi e sul come l’oggi possa dare prosieguo e destinazione nell’unico.

Si narra, anche in vari libri e linguaggi, che il maschile fosse escisso dal femminile.

Si può  non condividere il  desiderante femminile di  richiedere la parte che le fu tolta?

Gli occhi disincantati di un vecchio pazzo,  avvezzo a selezionare le forme e la loro armonia di rapporti,  non si sono distratti dall’osservare le intervenute mutazioni della morfologia - e  dell’essere nel mondo - femminile;  sempre più prossima,  se non già sopravanzante,  a quella del maschile.

Dalla perdita della adiposità muliebre alla elasticità muscolare, dalla capacità di resistenza vitale al determinismo esistenziale;  con una separazione  comportamentale tra  sensualità/sessualità e  maternità.

Di contro,  il maschile retrocede nella emotività sentimentale “isterica” e femmineamente esibita; quindi, nella impotenza sessuale e riproduttiva; ancorando il lutto della perdita alla rabbia e,  poi, alla violenza.

Il maschile degrada il suo requisito fondante: la logica. Il femminile la esalta,  anche nella magnificazione della sua eccellenza: l’inganno di Odisseo.

Le discendenti delle vestali, delle pizie, delle prostitute sacre conoscono e ri-esplorano, in sé,  il gioco dei sensi nei ginecei e le destinazioni dei propri parti e  recitano in mantra, come inno di rivolta, i misteri eleusini.

Il femminile già sapeva  che la sensualità/sessualità è nel  rapporto emotivo/creativo  tra parti eguali e, oggi,  sa che il fecondante  può essere scelto nello spazio/tempo più opportuno alla maternità: commerciando il seme nei laboratori,  escludendo l’obbligo della propria disponibilità al maschile.

Da vecchio pazzo ipotizzo e temo (ma, poi,  perché temere considerata la mia mancanza al tempo?) che il mondo futuro sarà il mondo del femminile, ove le donne,  liberatesi del pene, relegato a inutile orpello, organizzeranno una società di sensualità creativa.

Nel cuore di Saffo si avvererà il percorso dell’androginia.

Il cielo e la terra  genereranno nuovi figli, nuovi dei.

Si avrà, al tempo,   memoria del viaggiatore tra Termodente e Lesbo: il vecchio pazzo che leva, ai sogni,  il “Canto beduino” in onore di lei e in onore di un altro vecchio pazzo?

Una donna s'alza e canta

La segue il vento e l'incanta

E sulla terra stende

E il sogno vero la prende.

Questa terra è nuda

Questa donna è druda

Questo vento è forte

Questo sogno è morte.

(Giuseppe Ungaretti)

 

 

 

la sindrome di mastro Geppetto  del 21 febbraio 2016

 

 

È, a volte,  in ciascuno di noi,  una duplicità  di valutazioni sulla condizione sociale.

Una,  appartiene alla sfera della macerazione esistenziale fondata sulle poetiche della vita possibile, l’altra,   alla sfera del contesto  delle contraddizioni,  coattive,  degli interessi, dei desideri, della morale, delle storture culturali.

Ognuno è salvo nel mondo (multimondo) quantico; ognuno è perso entro i confini di una comunità organizzata per categorie inerziali.

A dire che può manifestarsi  contraddizione (forse, vi è e ne ho rammarico) tra la mia  tematica sulla “minoranza maggioritaria” e le note che qui stendo.

minoranza maggioritaria” come pulsione ideologica/prassistica tesa a opinionare e teorizzare temi politico/sociali;  quindi,  operare  in   alvei di superamento della emarginazione di grandi masse definendo una dignità della condizione umana, contemporanea e nel suo evolversi. A dirla breve:  testa di ponte della rivoluzione,  perciò priva di interessi o deliqui estetici.

Salvo nel mio mondo,  mi appresto alla ventilata ipotesi “evolutiva” di  fecondazione surrogata; in specie quella di soddisfacimento del desiderante maschile di coppie omosessuali.

Ritengo che la fecondazione surrogata sia una espressone violenta dello spregio verso il femminino  - quindi di sottomissione-  operata dall’arroganza del grande capitale;   volta a determinare una nuova fascia sociale di discriminazione,  adescando fragilità e povertà.

Con un paventato, possibile, seguito, non trascurabile, di sollecitare canali di arricchimento;  da concedere, in frutto,  a nuovi “Kapò”;  bavosi e capaci di adeguare lo  sfruttamento della prostituzione, specie minorile,  verso idealità procreative.

Si dovrebbe sorriderne,  ma sgomenta la esasperata  dolcezza fiabesca dei “due papà”. Spunto per la identificazione e lo studio di una  nuova sindrome; che penso ben definire:  “la sindrome di mastro Geppetto”.

Sgomenta chi ha vissuto l‘esperienza di essere padre e che, dalla  cronistoria delle circostanze di rapporto con i figli,  sa riflettere sulle titubanze e le disarticolazioni nell’accudirli;  finanche nel tenerli in braccio o cullarli; inebetiti e incerti, finanche impauriti,  nelle gestualità che imitavano –dovevano imitare -  quelli  armonici della madre.

Sgomenta il trasferimento di un desiderio a dritto imprescindibile e irrinunciabile.

Un desidero non ha valore e funzione di un diritto acquisibile in funzione dell’egualitarismo o dell’uguaglianza.

Io e un altro milione di italiani desidereremmo fare una corsa di 50 metri o salire 1 piano di scale, saltando  gradini. Ma la fisiologia cardiaca non ce lo consente e non possiamo pretendere un diritto tale da modificare il nostro stato, umiliato dall’impossibilità. Diritto che, in paradosso,   potrebbe essere quello, per motivi costituzionali di uguaglianza,   di vietare di fare i 50 metri di corsa o salire 1 piano, saltando i gradini.

Vi è nel desiderio dei “due papà” – nella “sindrome di mastro Geppetto” – una inaudita  violenza verso il femminino poichè si esprime come volontà - paradosso della corsa -   nel determinare emarginazione da una propria  condizione di emarginazione – gravemente vissuta, per anni, e inopinatamente  -  che dovrebbe, viceversa,  dare esperienza e coscienza di non esasperare e mortificare altre forme di emarginazione.

È comunque nel mezzo la sollecitazione alla “sindrome di mastro Geppetto”: nel mezzo economico, nella ostentazione della possibilità economica; nel discriminante, rivendicativo , della ricchezza.

Superflua ogni riflessione – anticipata o successivamente tardiva -  sul possibile soggettivo turbamento sociale del figlio in età adolescenziale; nulla valendo le ipotesi di “normalizzazione” in una società mista di eterosessuali e omosessuali  (si badi dico “figlio” e non “figlia”  poiché ritengo che i “due papà” da se stessi respingerebbero, sentendosi inadeguati nella funzione educativa, l’ipotesi di una “figlia”).

Qui levo  il mio appello alla condanna di una proclamatasi “sinistra” (affetta da sinistroidismo e perciò  reazionaria, oscurantista) portatrice delle esigenze di questi  nuovi “diritti” e che esaltando i desideri di alcuni  e non l’interesse della stirpe progressista, cerca il consenso e il conferimento al  potere da parte di  lobbies,  più o meno occulte.

La sinistra è un processo etico di responsabilizzazione delle masse, non la tenutaria di alcove morfologicamente infeconde.

Molti lo dimenticano.

 

ps

Al tempo della conclusione di questo scritto apprendo della disgustosa  vicenda di Vercelli.

La sinistra dei desideri,  ubriaca dell’effimero del proprio chiacchiereccio,  non partecipa, non propugna, ancora una volta,    la difesa,  pur minima, della   dignità  dei deboli e consente, viceversa,  che su di essi si pratichi ogni abominio, priva del  coraggio etico/politico di “alzare la ghigliottina” ed eliminare il marciume  della plebaglia – oltre il censo - sfruttatrice e violenta.

 

 

 

diritto quantistico del 6 marzo 2016

 

 

prologo

Anni addietro (monotonamente dico sempre del passato, mai del futuro!) agli  esordi delle mie pretese giurisprudenziali  - unico settore “speculativo” offertomi dalla maturità scientifica – le superbie della giovinezza mi condussero nelle sale delle biblioteche. 

Provai e mi ritrovai capace.

Fornito di un istinto selvaggio ad annusare. Il libro più  segreto. Fogli dimenticati nelle raccolte dei depositi.

Alla ricerca di un metodo di apprendimento mi affacciai velleitario sui cataloghi (all’epoca, cassettini di  schedule  con calligrafie cortesi e pazienti).

Non seguivo schemi. Intesi iniziare - ostinato, illuso  titano-   dalla lettera A.

Il mio interesse – l’interesse che avevo edificato – volgeva verso la filosofia del diritto. La prima schedula riferiva “Abate Longo Giovanni” (un giusnaturalista del XIX secolo;  non ricordo il titolo del testo). L’inusitata, quasi sconvolgente attenzione verso un dimenticato autore, spinsero i bibliotecari, con un qualche sorriso, a identificarmi nel seguito con “quello di Abate Longo Giovanni”.

Senza una griglia di conoscenza su cui calare le informazioni che si vengono ad acquisire queste  appaiono prive di sequenza e funzionalità logico/storica tra esse stesse. Si commettono così  disvalutazioni sulla propria ricerca o sulla fortuna di occasionali ritrovamenti.  Mi ritrovai,  dopo ore d attesa per la risalita dai depositi  e lavaggi delle mani (non volevo inquinare le pagine dei libri con le mie impurità),  a sfogliare gli affiches della Repubblica Napoletana del ’99. All’epoca era una ri-scoperta di cui non ebbi consapevolezza.

Mi interessava un solo manifesto: quello firmato da Niccolò Fiorentino (un liberale, che ebbe fratello un  ministro del restaurato regno di Ferdinando I).

Fui affascinato dall’indirizzo: “Ai giovani cittadini studiosi della città di Napoli”. Ne sono tutt’ora.

Una rasoiata di Occam che eliminava ogni superfluo; inglobando ragionamenti, esperienze, intuizioni.

Da qui in poi  abbandonai le biblioteche e, da “topo”,   e mi volsi alla ricerca di penne per diventare un “passero

Sono, ormai,  un artigiano dell’intagliare emozioni e intuizioni.  Non sono un “intellettuale”.

Per pervenire alla consacrazione di  “intellettuali”  occorre essere in possesso di una più che efficiente memoria. Un esercizio di localizzazione delle informazioni cui attingere per  riferirne, riportarle, il più delle volte  mistificandole. 

Una trappola del “sapere individuare e catalogare il sapere”  che si nobilita attribuendole il fine di coscienza della conoscenza o, a proprio gusto, conoscenza della coscienza.

Alla fine gli “intellettuali” appaiono come santoni degli inganni, per abbandonarsi ad effluvi di parole avvolte mai d’intorno a una colonna ma, quasi sempre,  ad un filo di fieno.

Per le vicende della vita (nell’evolversi – o nel ritrarsi – della vita intellettiva e politica in cui mi sono trovato immerso) ho maturato riflessioni – e presumo intuizioni – sul legaccio sociale che è il diritto, quindi lo stato, quindi la politica dello stato e nello stato.

Ho osservato che il modernismo in cui bivaccano teorie – sul diritto -  di culturalismo, evoluzionismo, sociobiologia, genetismo, etc., sono, per lo più,  elaborate in funzione degli autori medesimi i quali da “lettori di norme” intendono assurgere a “maître à penser”. In nulla distaccandosi da schemi di  assunti aprioristici che pure sembra vogliano piegare a soluzioni sperimentalmente verificabili.

Memore delle mie velleità giovanili (rifuggendo, epperò  e ancora,  il saggio o la pubblicazione dotta) qui espongo,  sommariamente,  una ipotesi sul diritto, sulla fenomenologia  dello “ius”,   che   può assumere valore di spunto per una interpretazione e applicazione  quantistica.

Inglobando, anche,  futuribili presenze di diritti avocabili;  quali si possono prevedere in una  società di intelligenza alveare;  finanche, con  prosieguo nella  umanizzazione delle macchine o in una tematica cosmologica.

 

note per un diritto quantistico

Preliminarmente annoto che cercherò di adattare formule di meccanica quantistica (con i limiti che   mi provengono da una mancanza di opportuna scrittura di simboli) a condizioni spirituali e comportamentali che,  all’oggi,  non possono essere misurate (ovvero che, forse,  saranno, in futuro, misurate per effetti di reazioni biochimiche e relazioni sub atomiche;  o,  anche,  alterate in divenire,  per ingegnera genetica) e che, quindi, su tale ipotesi,  grava l’alea della provvisorietà indefinita.

Preliminarmente, ancora, provvedo ad un sintetico glossario dei termini usati e del senso delle  funzioni attribuite agli stessi:

ESIGENZE: le esigenze fondanti, non eludibili, che subordinano la  esistenza/sopravvivenza nell’ambiente e che introducono alle CONVENIENZE che si cercheranno  ed attueranno nella formazione della propria identità e nel rapporto con i simili

CONVENIENZE :  il come  soddisfare  una o più ESIGENZE

COSTANTE: le due condizioni “imitazione” e “compimento”, ad identificare la volontà  e capacità di procedere all’instaurazione e mantenimento di rapporti intersociali 

ESCLUSIONE: il coefficiente di violazione delle norme e decadimento del diritto  

funzione normativa: l’evidenza del probabilismo di elaborazione di una norma ad interesse collettivo laddove,  fruendo della legge di Planck (E=hv dove h è la costante d Planck e v la frequenza di radiazione) il quanto della norma (la necessità alla promulgazione)  ha, come costante h,  l’interesse dello stabilità politica dello stato e, come v, la pressione ideologico/economica delle masse (maggioritarie o minoritarie); la funzione normativa che ne deriva indica la densità di probabilità che la elaborazione (la realizzazione) della norma sia possibile in un determinato  spazio/tempo a sola condizione della prevalenza o dell’interesse dello stabilità politica dello stato o della condizione ideologico/economica delle masse (maggioritarie o minoritarie)

funzione giudiziaria: l’evidenza del probabilismo della emissione di un giudicato ad interesse soggettivo  laddove,  fruendo  della legge di Planck (E=hv dove dove h è la costante d Planck e v la frequenza di radiazione),  il quanto del giudizio  ha,  come costante h, la tutela della compattezza sociale e,  come v,  la costituzione esistenziale/culturale del giudice;  la funzione giudiziaria che ne deriva indica la densità si probabilità che il giudicato (la lettura della norma) sia possibile in un determinato  spazio/tempo a sola condizione della prevalenza o della tutela della compattezza sociale o della costituzione esistenziale/culturale del giudice.

 

(I valori di misura attribuiti alle condizioni sono funzionali a rendere effettuale l’equazione che viene desunta.) 

 

Cosa farebbe (cosa fa) un essere umano nella solitudine (una solitudine simbolica) di un mondo in cui prende vita?

Credo dovrebbe  soddisfare  tre esigenze: NUTRIZIONE, ORIENTAMENTO, PROTEZIONE.

All’origine,  solo esemplificativamente (le tre esigenze implicano e si aprono in un ventaglio interpretativo),  la NUTRIZIONE lo spingerà alla ricerca di alimenti (di prede),   l’ORIENTAMENTO gli addurrà punti di riferimento per il dove e il quando, la PROTEZIONE lo allerterà sulle condizioni del pericolo contro sé.

Posto in una condizione di caccia ricaverà nozioni di comportamento sul come scegliere la preda, sul come colpirla, sul come - e quali - le posizioni distributive  sul campo per l’accerchiamento  ed anche per la certezza dell’abbattimento,  con molteplicità di colpi addotti.

Siamo ai primordi. Non c’è uso del linguaggio. Il suono ha ancora modulazioni di avviso e di richiamo.

Si viene a manifestare, comunque  la spontaneismo di due condizioni essenziali e preliminari: IMITAZIONE e COMPIMENTO.

Queste  (con interpretazioni, poi,  adattate nel tempo; quindi,  apprendimento, ricerca scientifica, evoluzione tecnologica, prestazione di lavoro, etc) si porranno come costante che si trasferirà in ogni successiva interrelazione: potrei individuare questa costante nel simbolo µ < valore 1x1 2)˃ 

La soddisfazione delle esigenze (NUTRIZIONE, ORIENTAMENTO, PROTEZIONE) <E (valore 1x1x1 3)˃  trova  confluenza nelle CONVENIENZE (quali, ad es.: riproduzione, abitatività,  religiosità, attribuzione di funzioni, etc) <C (valore 1n)˃  che, con la evoluzione del linguaggio e della scrittura si stratificano come insieme di comportamenti (regole e/o norme, quindi  quanta della “funzione normativa”)  utili  alla aggregazione alla  appartenenza comunitaria ed alla sua  tutela (quanta della “funzione giudiziaria”); operando la ESCLUSIONE <Es (valore -1n)˃ nell’abbattimento dei valori della COSTANTE (violazioni dell’IMITAZIONE o del COMPIMENTO).     

Da ciò si deduce che il DIRITTO <D˃  è  risultanza – e si verifica -  del prodotto  della integrità delle ESIGENZE  per la quantità delle CONVENIENZE  moltiplicato per  la   COSTANTE e, nella ricorrenza, diminuito della ESCLUSIONE.

Ne deriva  l’equazione D = ECµ (- Es), positivo con risultato un numero intero ≥ 6.

A risultato  =0=  non sussistono condizioni di ius,  così come a valori < 6 se ne manifestano turbative alterative (dittature, esasperazioni ideologico/religiose o tecnocratiche, inadempimenti,   nodi  della “funzione normativa”  o nodi della “funzione giudiziaria”).

Oltre le metafisiche, le morali, la quantistica induce a riflettere che non sussiste  il giusto o l’ingiusto, l’eguaglianza o l’egualitarismo, la secondazione di geni  o il pathos del giudizio se essi non sono riferibili a un numero quantico; ovvero,  se l’onda (nel caso “energia della valutazione”, come la definisco) non si formi tra due pulsioni concettuali,  per semilunghezze di un numero intero; quindi, di due commozioni  continue, opposte ma di uguale  ampiezza (intensità).

In realtà,  non esiste il diritto.

Ma,  questo non lo sapevo?

 

 

 

il dio sconfitto del 23 marzo 2016

 

 

Non c’era notte che il mio sonno non fosse reso turbinoso da quel che avrei desiderato si avverasse o da quel che,  inevitabilmente,  si sarebbe avverato.

Gioco tra i sensi e la morte. Gli uni volti alla immortalità, l’altra ad un assurdo di vita eterna. Un crudo, feroce,  dispendio di emozioni. Un assillo inquietante tra sgomento e sconcerto. Ansie e ribellioni; poi,  dubbi  verso la costrizione sensoriale  che, mi andavo accorgendo,  erano stati  sedati  in sapienze codificate.

Mi risolsi nel tempo, affrontando il terrifico  disagio dell’osservarsi da sé,  a indagare e scrutare la decomposizione del mio corpo, quale ne sarebbe stata. Per distillare la miscela incestuosa di desideri e di possibilità, di vanità e di solitudini. 

Ad essa ancora ritorno quando la accozzaglia  umana - in un complesso connubio tra appropriazioni e tremori -  magnifica se stessa nelle onorificenze delle idiozie e nelle accademie degli stermini;  tra esecrazioni sorridenti e tra giustifiche schernenti. Le beatitudini della vita eterna o la resurrezione destinata ad una rinnovata concupiscenza. 

Sottomissioni  dell’umano. Dell’umano  vivente.

Ma cosa è il vivente se non la evenienza e la destinazione al decomporsi, quindi trasformarsi? E il decadimento delle molecole,  per cui i minerali si sono attratti,  non è anch’esso un trasformarsi? Non è il  vivente?

Le sapienze codificate raccontano di istinti e di coscienza, dell’anima concessa  alla sensualità del vivente, alla coazione della sopravvivenza.

Ma non è  illimitata qualità dell’anima  il ricordo dell’espiazione, della redenzione,  dell’eroismo, del perdono? I campi di caccia, le armi incrociate, le montagne paradisiache, i colloqui amorevoli con le ombre? E, non è nella memoria il marchio della funzione/prerogativa  dell’anima?

E,  non si annida  nelle particelle  la facoltà della memoria?

Il vivente si decompone e decade nelle sue parti/essenzialità e  in un altrove, del vago universo noto,   le particelle migrano la facoltà della memoria. L’essere stato che si rinnova in un essere diverso, in un multi-vivente.

Solo il vivente – la facoltà della memoria -  è l’unico a percepire se stesso come ente di una alterità indefinita e casuale.

L’ente “è” perché “è” nella funzione d’onda della particella e per i momenti evidenziati dalle  decoerenze (momenti delle rivelazioni e delle resurrezioni).

E, il dio? Il dio misericordioso della sua onniscienza. Il dio  delle scritture narrative, enfatiche, prescrittive. Il dio nel  profetismo, nel figurativismo, nel didascalismo.  Il dio che si propone (più ancora: proposto) come tutore dell’obbedienza. Concessivo, supplice e  despota. Suggello di opportunità in bilico tra la convenienza e la rinuncia. Il dio che scansiona riferimenti, ammonimenti,  esclusioni,  per la compressione verso sè.

E,  se il nostro vago universo tremulasse in un bagliore di fiamma? In un cerino che si accende. E, come la fiamma,  espandersi e,  poi, contrarsi per estinguersi. E, se il momento del bagliore e lo spegnimento siano stati - e siano - il calore della inflazione primaria e il freddo assoluto della implosione. E, se  l’altrove, dove si accese il cerino,  sia il luogo di un universo altrove; in una indefinita,  impercettibile,  sequenza di  matrioske? E, se,  diversamente,  le particelle si contraessero o si espandessero e, nel tempo del loro contrarsi ed espandersi,  concludessero ogni stato  transitorio in  spazi/specchi concentrici del pregresso?

E, se? E, se? E, se?

E, nel se,  il dio giace sconfitto.

Adagiato nel suono tra la cresta e il cavo dell’onda. Della particella.

 

 

 

cosa farete?  del 10 aprile 2016  

 

 

Non ho mai fatto uso di droghe. Produco da me quelle endorfine a volte necessarie, ma non sempre bastevoli. In verità, per l’uso del caffè,  ero giunto a costituire una associazione di abituali consumatori: “i caffeinati”. Oggi mi limito – naturalmente nella sola prima mattinata - a tre “macchinette”, ben zuccherate. Con la coronaria occlusa,  l’ischemia stabile e la protesi aortica che mi ritrovo dovrei rifuggire simile abitudine. Ma, la mia nonna paterna si nutriva, solamente,  di caffè e visse sino a 89 anni. Pessimo esempio.

Sì, il caffè è una droga, ma non mi risulta che sia  un allucinogeno; piuttosto,  uno stimolatore delle sinapsi neuronali.

Un giro di parole per dare stura a una motivazione fluida alla combriccola di riflessioni o intuizioni o fantasticherie   (a gusto del cortese lettore) che mi sconquassano nella composizione di questo scritto. A causa e per motivo degli accadimenti sociali e culturali che agitano  questo inizio di millennio.

 

1° pensiero

Per quel volo di uccello sull’antropologia a cui mi sono  applicato,  mi riporto alle steppe russe tra il mar Nero e il mar Caspio; in un’epoca distante temporalmente tra i 12.000 e i 10.000 anni. Riferendomi alle storie carpite per esplorazione testuale e orale (oggi, anche genetica),  ovvero per deduzione sui raffronti  tra le socialità che ne conseguirono.

È l’epoca delle migrazioni: una, verso  il subcontinente indiano; una,  verso le coste orientali del Mediterraneo; una, verso l’Europa occidentale (sin verso il 3000-2000 ac); un’altra, terminata nel  confondersi  con le preesistenti popolazioni  indigene iraniane.

Migrazioni (o meglio: invasioni;  non altrimenti si può definire il trasferimento di un gruppo – o tribù -  in un territorio non nativo) che riversarono sulle popolazioni indigene –sottomettendole- la propria  struttura religiosa, ordinamentale e  sociale. Questa adeguata e ri-elaborata  in una  modulazione tripartita: sacra, militare,  economica.

Criterio di individuazione  delle culture indoiraniche, poi  iranoeuropee.

Ciascuna di queste funzioni si  proiettava in  un pantheon a formulazione dualistica: una coppia di dei destinatari dell’osservanza  per la funzione che ognuno veniva-doveva assolvere.

In un conflitto-sintesi,  prerogativa ineludibile dell’equilibrio cosmico, tra  il bene e il male.

Nell’ambito del sacro: il dio oscuro e minaccioso (es: Varuna) e il dio dell’accoglienza  e dell’amicizia (es: Mitra); potrei dire: il dio della supplica e il dio della confidenza.

Tra essi non vi è contrasto. L’uno è  il giudice delle iniquità, delle trasgressioni. È il vendicatore a cui il reprobo si rivolge per  dichiarare il pentimento e con l‘assunzione della colpa  sottrarsi alla punizione. L’altro è  il dio del contratto tra l’uomo e il cosmo. È  il dio dell’equilibrio, della beatitudine,  della buona fortuna.

L‘uno e l’altro sigillano gli emisferi del tutto.

Il duale percorre le altre funzioni. Nel militare, l’attacco e la difesa. Nell’economico, l’immortalità e la integrità. Qui gli dei hanno la natura di gemelli disformi: uno, figlio del cielo e,  l’altro,  figlio dell’uomo. Lo sono Castore e Polluce. Lo sono Romolo e Remo.

La tripartizione opera come griglia dei comportamenti in cui la società opera per  ottimizzare e preservare l’equilibrio umano nella interazione con il divino, nella organizzazione strutturale della società, nel miglioramento delle condizioni di vita e dei beni.

La preghiera ha il fine di  stabilizzare esaltare, fortificare  l’equilibrio; quindi:  “ ... rafforzare l’essenza del sacro e rafforzare le preghiere ... rafforzare l’essenza guerriera e rafforzare i guerrieri ... rafforzare le vacche e rafforzare i contadini ...” (Rg-vedaVII, 35,16).

Alla preghiera si affianca, in epoca arcaica (ma sussistente, più tardi,  anche in Roma e in Grecia),  il sacrificio umano. Sacrificio agli dei che si adegua nel sacrificio di animali e, poi, nella libagione; nel vino  colore del sangue offerto a memoria e rinnovazione del contratto tra il sacro e il vivente (sarà l’offertorio).

Qui il sacrificante non è parte di una realtà sociale - quale funzione del sacerdozio – ma è l’adempiente il rito volto a rinnovare, consacrare il patto, la promessa, l’impegno alla tolleranza cosmica.

 

2° pensiero

Nella infiorescenza  mitico/mistica  dei pantheon,  sul versante della cultura egiziana,   Akhenaton  (XIV secolo a.c.) opera l’affascio delle deità nell’unico dio Aton, il sole. Nell’assunto che tutto  è “utile al Dio, che è utile a lui”. Con tale principio  separando il culto del dio dall’identificazione di questi con il faraone e, conseguentemente ri-strutturando comportamenti sociali quali la universalità del culto,  la monogamia, la essenzialità  della sepoltura, la  eliminazione dei sacrifici animali.

Sul versante della cultura iranoeuropea -  con una qualche contemporaneità -  a Zarathustra (ovvero Zoroastro - XVIII-XV secolo a.c.) viene affidata la “rivelazione” da Ahura Mazda.

Questi è il Signore, il dio unico, creatore di ogni cosa e sommo bene: “ Riconosco, o Mazda, nel mio pensiero che tu sei il Primo e anche l’Ultimo, l’Alfa e l’Omega; che tu sei il Padre di Vohu Manah, perché io ti ho fermato nel mio occhio, Tu sei l vero creatore di Aša, e tu sei il Signore dell’esistenza e delle azioni della vita attraverso il tuo operare” (Avesta Yasna, XXI,8).

Mazdā è il creatore dei due spiriti primordiali (anch’essi gemelli) il Bene e il Male, la Verità e la Menzogna, autonomi nella volontà e che, confrontandosi,  determinano la vita o la non vitalità: l’ottimo pensiero o  l’esistenza pessima.

Dio parla (teofania) ad Abramo e Mosè riceverà le leggi e quindi a lui Dio darà  la rivelazione della volontà unica a mantenere l’equilibrio cosmico. Il male porterà la perdita della salvezza eterna o, se si vuole, dell’ottimo pensiero.

Sul versante  della cultura semita (già, arabi hanif – monoteisti-),  molto più tardi (610 d.c.) - l’arcangelo Gabriele si manifesta (teopatia)  a Maometto:  “[1] Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, [2] ha creato l'uomo da un grumo di sangue! [3] Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, [4] Colui che ha insegnato l’uso del calamo, [5] ha insegnato all'uomo quello che non sapeva”. Maometto la seconda volta che ascende al cielo, sebbene vivo,    viene ammesso alla contemplazione di Dio (privilegio concesso solo ai morti, dotati da Dio di sensi particolari)  ricevendone la visione della  straordinaria infinità e della immensa potenza.

 

3°  pensiero

Appaiono testimoniati  in tutti i libri sacri delle religioni monoteiste – ovvero nelle trasmissioni orali e trascritte – avvenimenti e ascesi fondati su rivelazioni o miracolismi. Tutti, per l’epoca in cui si sono manifestati,  al di fuori delle categorie scientifiche della contemporaneità; quindi infusi  nel meravigliato stupore dell’impossibile, dell’ignoto.

Dal monoteismo semitico/ebraico al monoteismo cristiano/iranoeuropeo.

Zoroastro ( le gatha dell’ ”Avesta”), Maometto ( le sura del “Corano”), Gesù di Nazaret ( i vangeli del “Nuovo Testamento”) ascendono, in vita o in morte, al cielo.

Sara  partorisce in età infertile; le vergini sono - o potranno essere -  partorienti. I morti risorgono e i malati guariscono; le voci, senza labbra,  si fanno ascoltare; luci e astri divampano; le spade, concesse dal dio,  sono vittoriose contro i nemici.

In psichiatria si potrebbero  diagnosticare stati  deliranti; in ostetricia, fecondazioni assistite; in clinica medica, malattie psico-somatiche; in biofisica,  alterazioni da irradiazione di particelle; in genetica, catene  riproduttive di staminali;  in meteorologia,  luci globulari. Tralasciando la fisica quantistica  ed il suo evolversi esplorativo verso i multimondi.

Resta il fascino della morte di Zoroastro allorquando  lascia il suo seme nel lago di Kansaoya laddove una vergine si bagnerà,  rimanendo incinta e dando alla luce “il Salvatore”.

Invero, la poesia è il seme/sintesi di ogni possibile narrazione quantica. L’oltre della logica e della metafisica. La religiosità assoluta, indeterminabile nel suo probabilismo.

 

4° pensiero

Non si può non procedere all’osservazione che le culture siano  espressione di quella  funzione –tra le tripartite- definita economica; che le civiltà si determinino con la fusione tra la sacra e la economica; che le  socialità siano  la fusione/attuazione di tutte.

Le culture si fondono , le civiltà si confrontano, le socialità si scontrano.

Non si può non valutare – dall’osservazione dei fenomeni migratori “arcaici” - che è costante la subordinazione delle popolazioni stanziali e native ai gruppi migranti o invasivi. Con ulteriore rilievo che le mutazioni  operate dalla subordinazione investono le forme delle socialità.

Le migrazioni oggi in atto – tipizzate come epocali – vengono enfaticamente e maldestramente indicate come “guerra di religioni” o “scontro di culture”.

Io credo e assumo che  è in atto un progetto (finanche ignoto ai protagonisti, prede per mercati di carne umana) di una ben più drammatica  “sopraffazione di socialità”; ovvero elisione,  schiacciamento,   delle  connotazioni infra-personali,  infra-istituzionali,  infra-economiche  cui è pervenuta a caratterizzarsi la stirpe indoeuropea (o iranoeuropea o ossetoeuropea o indoucraina e finanche russoindoeuropea). Con una velocizzazione degli eventi  determinata dalle ambizioni di una globalizzazione finanziaria che fidelizza le vacuità cognitive, gli esibizionismi comportamentali, le mercificazioni delle coscienze. 

Che nei prossimi due  millenni non potranno non avverarsi “confusioni” genetiche e culturali tra le varie stirpi è inevitabile e finanche auspicabile, sempreché  siano resi, oggi,  intangibili – non depauperabili -   i valori di civiltà trasmissibili.

Quale la cultura  da porre  argine allo sterminio che incombe, prossimo e futuro,  sulla socialità indoeuropea?

 

5° pensiero

Leggo  il V vangelo. Il vangelo di Tommaso. Il vangelo reso “segreto” dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana:

[11] Gesù disse: “Passerà questo cielo e passerà ciò che è sopra di esso, i morti non sono vivi e i vivi non morranno. Nei giorni in cui mangiavate ciò che è morto, voi lo rendevate vivo. Quando sarete nella luce che cosa farete? Nel giorno in cui eravate uno, siete diventati due. Ma allorché siete diventati due che cosa farete?

[22] Gesù rispose loro:Allorché di due farete uno, allorché farete la parte interna come l’esterna, la parte esterna come l’interna e la parte superiore come l’inferiore allorché del maschio e della femmina farete un unico essere sicché non vi sia più né maschio né femmina allorché farete occhi in luogo di un occhio, una mano in luogo di una mano, un piede in luogo di un piede e un’immagine in luogo di un’immagine, allora entrerete nel Regno.

Il dio uomo, nella versione del V vangelo recita assonanze all’androgino, al contrapposto, alla perfetta unione dei due uguali (la dualità nel  sacro  delle  funzioni tripartite, poi  Mitra, l’unico, l’amico).

E la luce non è  profezia sulla conoscenza contemporanea  delle particelle, dei fotoni? Il tunnel che si apre nella memoria delle particelle,  nella pre-morte?  E l‘immagine in luogo di un’immagine  non è la linea di orizzonte dei multiuniversi?

La lettura desertifica  gli schemi teologici delle titubanze fobiche medioevali o delle preminenze secolari.

È forse questo il segreto labirinto di dubbi in cui vaga il filo della conoscenza di un Papa? Tra predizioni e destinazioni.

 

infine

Dico, a te lettore, che la Chiesa Cattolica Apostolica Romana  se solo si avvedesse  dell’essere calata, in questo transito  epocale, nella morsa delle profezie e nello svelamento dei vangeli, proporrebbe il peso del suo proselitismo ad uso non della verità rivelata, ma della verità esplorata.

Dico a te lettore che le profezie sulla fine del papato e sulla  scomparsa della  Chiesa Cattolica Apostolica Romana in una lettura non catastrofista  (nell’intendimento di religioneria) potrebbero trovare avveramento in una  volontaria consunzione  indirizzata ad essere argine di protezione della cultura indoeuropea, delle culture che si fonderanno, delle culture che verranno.

 

Il culto, i culti, hanno creato l’ “errore” e per emendare l’umanità hanno sollecitato iniquità e sevizie, demolizioni di sapere e di bisogni; hanno invocato  persecuzioni e genocidi; hanno frodato la criticità; hanno adulterato  il sapore della morte umana.

Dalla religiosità dell’inesplorabile, del concesso, dell’atteso; deposto, in pace, Gesù di Nazaret (di cui, sembra, sia stato trovato il sepolcro), abbandonato il dio della croce e della spada, la Chiesa Cattolica Apostolica Romana  dispieghi la equità della scienza, la quiete della sapienza, rendendo all’uomo la morte infinita.

 

 ps

Credo  che abbiano fatto parte - o facciano ancora parte - della mia struttura vivente Zoroastro, Maometto, Gesù di Nazaret. Per particelle del loro percorso materiale. Transiti. Qui la verità dell’eterno ritorno. La più straordinaria delle illuminazioni della coscienza umana. La  religiosità dell’uno di diversi.

Ah! Sarà per me un onore se si penserà di me e del mio dire - del mio appello alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana - rapportandomi alla follia di Nietzsche. Anch’egli agita le vibrazioni del mio vivere.

 

 

 

ultimo aggiornamento/pubblicazione il   10 aprile  2016

 

 

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